Salvo Cansone
IL MONTE GEBEL
PREFAZIONE
Luigi Pirandello, nella sua mirabile prefazione ai suoi “Sei personaggi in cerca d’autore”, diceva che egli aveva una servetta, di nome Fantasia, da lui definita “sveltissima e nuova sempre del mestiere, e da tanti anni al servizio della mia arte”, che gli portava in casa straordinari soggetti da trattare, dato che apparteneva agli scrittori “di natura non storica ma, filosofica”.
A questo stesso genere di scrittori appartiene indubbiamente Salvo Cansone, dal momento che egli afferma, in un punto chiave della sua presente opera, che “Vi sono uomini che leggono le stelle, altri che si intendono di geometrie, e altri che, pur avendo nel cuore la durezza, conoscono i nomi dei fiori. I loro corpi vibrano a causa delle molteplici tensioni”.
Chi è questo epigono di Pirandello, che tiene anch’egli al suo servizio la servetta chiamata Fantasia? E’ un artista nato in Sicilia, in quella Lentini che non è solo terra di profumate arance, ma anche patria di filosofi, di poeti, e di Santi: di filosofi come Gorgia, che già nel V secolo a.C. faceva sbalordire gli Ateniesi, parlando a lungo del discorso giusto, e altrettanto a lungo del discorso ingiusto, e dimostrando falso quanto aveva precedentemente dimostrato vero; di poeti come Jacopo, citato perfino da Dante, e che invitava le donne a dare a lui il desiato amore con versi gentili e deliziosi: lo vostro amor, ch’è caro donatelo al Notaro ch’è nato da Lentino; e di santi, come i tre fratelli guasconi Alfio, Filadelfo e Cirino, che proprio a Lentini affrontarono impavidi il martirio, e che lì si addormentarono sereni nel bacio del Signore, attendendo il suono dell’angelica tromba, che li farà risorgere splendidi di bellezza e fulgidi di santità.
Ma Lentini è pure patria di guerrieri come Alàimo, uno dei tre eroi del Vespro siciliano, che guidò il suo popolo alla riscossa sanguinosa contro l’insolente oppressore; ed è pure la patria di architetti come Riccardo, il collaboratore insigne di quel grande imperatore che fu Federico II di Svevia, per il quale costruì i magnifici castelli di Catania e di Augusta, con torri e baluardi che hanno sfidato i secoli.
Tutti questi elementi – la speculazione intellettiva di Gorgia, il senso poetico di Jacopo, l’ardore mistico dei tre Santi fratelli, il vigore guerriero di Alàimo e il genio costruttivo di Riccardo – alimentati e corroborati dalla servetta che Pirandello ha evidentemente ceduto al suo epigono, confluiscono nell’arte creativa di Salvo Cansone, e gli hanno fatto realizzare, d’impeto e di getto, questo poema epico e figurativo che è Il Monte Gebel.
Come il magma infuocato che esce dai crateri dell’Etna –perché il monte Gebel altro non che l’Etna, che i siciliani chiamano proprio così, il Mongibello, cioè il monte dei monti; e un’antica poesia siciliana afferma che lu munti di li munti è Mungibeddu: la cima tocca lu celu stillatu, e quantu spinci supra lu liveddu, tantu scinni sutt’acqua smisuratu… (Mongibello è il monte dei monti – la cima tocca il cielo stellato – e quanto s’innalza sopra il livello del mare – altrettanto scende sott’acqua smisurato…) -sa trasformare e unificare i vari elementi chimici che lo compongono, così Cansone nel suo poema figurativo sa amalgamare e unificare tutte le estrosità della sua fantasia, tutti i colori della sua tavolozza, tutta la vitalità e la drammaticità della sua scultura, fervidamente fusi dalla sua vivacità isolana, che è ribollente ed incandescente proprio come la lava del suo vulcano, da cui il poema figurativo di Salvo Cansone prende il nome.
Leggere Il Monte Gebel di questo artista siciliano trapiantatosi in Lombardia, dove il suo estro originale e personalissimo ha già trovato modo di affermarsi ampiamente, è come librarsi in un cielo terso e luminoso, sulle ali di un canto che sgorga da un cuore fervido e appassionato, e che ci porta in alto, verso l’eterno, in una sublimazione senza confini.
Il paesaggio siciliano, che è di per se stesso suggestivo ed affascinante, come quel castello di Aci che, come dice l’autore, appare come una monolitica difesa conficcato sugli scogli davanti al blu del mare Jonio, qui diventa trasfigurato ed etereo.
Questa nuova opera di Salvo Cansone attinge spesso alle fonti della più estrosa fantasia, ed illumina di una luce soave la mente del lettore che si accosta alle parole, luminose come le figure che accompagnano il testo, mostrandoci una realtà siciliana che è ben diversa dai soliti e squallidi temi della mafia e della delinquenza, con i quali generalmente e superficialmente viene identificata la Sicilia.
Un’opera nuova e interessante, dunque, questa di Cansone, di un’originalità coinvolgente e seducente, che rapisce ed incanta, e in cui la realtà si trasfigura nel sogno e nella fantasia, facendoci liberamente vagare per i sentieri dello spirito, con un caleidoscopio iridescente di sentimenti e di passioni, in cui la sostanziale sicilianità dell’autore (che non cade mai nel sicilianismo, o peggio nella sicilitudine), finisce per assurgere a connotazioni universali, legando la parola all’immagine e l’immagine alla parola, facendo vibrare tutto il nostro essere con molteplici tensioni, come suggestivamente dice l’autore.
Un libro magico Il Monte Gebel, da cui alla fine si leva un canto di pace, un canto le cui parole, facciamo volentieri nostre, perché
“sarebbe bene che in tutte le piazze – si cantasse di guerre che non sono – e che fosse il solo canto di uomini giusti – a darci le immagini di nuovi eroi”.
Santi Correnti
INTRODUZIONE
Sulla cima dell’Etna è possibile sentire il respiro lento e un pò affannato della vecchia terra e ogni volta pare che debba essere l’ultimo.
Io cedetti alle lusinghe delle stelle in una notte in cui, dentro di me, non c’era vanità né presunzione, ed ebbi sulla guancia segnata dalla fatica, la tonda carezza della luna piena di fineluglio.
Quando le guglie di pietra lavica, illuminate da un solo lato, mi apparvero come cattedrali gotiche e quando gli arabeschi argentati delle soffici nuvole divennero grasse rotondità barocche, ebbi in regalo dal cielo, la visione di un uccello che mi portava in dono la storia del Monte Gebel.
I ontorni della montagna mi parvero allora più chiari e le mie orecchie udirono la musica del lontano bosco di Montalbano. Viaggiando su quella musica ebbi la visione della Caverna Incantata e comparve davanti ai miei occhi, ormai simili alle stelle, la dolce Adalgisa, regina di quel luogo.
Le sue guance avevano il colore delle arance e lei distesa accanto a me, su morbidi tappeti di foglie, modellava con le sue labbra le parole del racconto:
…Nei pressi del monte Gebel il Cavaliere Guiscardo D’Alamanno, Paladino dei Cristiani, combatte contro Agramante da Lentini, Principe Ereditario, Eroe degli Infedeli…
Il sogno era ormai aperto e le visioni che ebbi al suo interno furononitide e colorate: i documenti della Storia si mischiarono alla fantasia come morbide parole sulla tavolozza del pittore.
…Adalgisa aveva ornato con la zagara i suoi capelli e mi raccontava di uomini mai esistiti. Le sue parole mi sembrarono vere perché le immagini vedevo dentro gli occhi di lei:
Albina, l’amante scura e coraggiosa di Agramante, figlia di Jbn el Moussa che non può sottrarsi al fato che la vuole uccisa dopo aver subito violenza da Gualtiero.
● La bella Costanza, promessa sposa di Guiscardo che invoca il giovane Zamir di darle la prova dell’amore più forte.
● Il potere malevolo di alcuni Dei, serpeggiando nella mente di uomini malvagi fa subire orribili e sadiche torture ai Fratelli Protettori della città di Lentini. Lucia è privata della luce degli occhi e la bella Agata è orrendamente amputata.
● Il Castello di Aci, nelle cui stanze Fanciulle di armoniosa bellezza, vagheggiando lontane e fumose chimere, offrendo ai Duri Cavalieri la fragranza delle proprie primizie.
● Agramante insegue i propri ideali sulle vie del Sapere, del Coraggio e della Conoscenza. Per quelle vie si manifesta il Potere degli Dei e quello del POTERE sul Potere degli Dei: la “Fine Essenza di Purità” che al di sopra di se ha solo se stessa.
● Lo strapotere di alcuni Dei, al quale gli uomini a volte non possono sottrarsi, crea illusioni e determina speranze in mondi immaginari e inesistenti.
● La Morte assumendo le sembianze di una calda femmina vogliosa miete le sue vittime con l’unico desiderio d’impadronirsi con l’amplesso del seme ormai inutile alla vita.
Il sogno era ormai aperto e le visioni che ebbi al suo interno furononitide e colorate: i documenti della Storia si mischiarono alla fantasia come morbide parole sulla tavolozza del pittore.
…Adalgisa aveva ornato con la zagara i suoi capelli e mi raccontava di uomini mai esistiti. Le sue parole mi sembrarono vere perché le immagini vedevo dentro gli occhi di lei:
La calma e serena Adalgisa narrava simili storie alla mia fertile ma ignorante mente e la dolce lusinga delle stelle, soporifera di zagara, ne rendeva ancora più chiari i contorni. Le immagini, come un fiume, scorrevano ormai su tutto il corpo di lei e tanto ne rimasi lusingato da non accorgermi che lei svaniva mentre sfogliavo le mie mani come un libro.
Anche Omero parla di uomini cui la malia fece vedere cose che non erano e nelle piazze, intorno al Monte Gebel, altri uomini, alcune volte, raccontano di cose che non sono:
“…lu Cavaleri Guiscardo D’Alamanno Paladinu di lu Sacru puteri novu, contracummatti cu Agramante da Lentini, Principe Ereditariu e Campiuni di li Sarracini…”
La calma e serena Adalgisa narrava simili storie alla mia fertile ma ignorante mente e la dolce lusinga delle stelle, soporifera di zagara, ne rendeva ancora più chiari i contorni. Le immagini, come un fiume, scorrevano ormai su tutto il corpo di lei e tanto ne rimasi lusingato da non accorgermi che lei svaniva mentre sfogliavo le mie mani come un libro.
Dalla cima del Monte Gebel si può vedere la notte, diradarsi lentamente, sospinta da una nuova realtà.
(I Cristiani?)
I PALADINI DEL SACRO SIMBOLO
Sono loro il braccio armato di un Potere religioso e culturale costruito attraverso i secoli nella omertosa penombra di corridoi bui e silenziosi tirati a cera. Corridoi percorsi da figure pancia-piena coperte di ninnoli e ricami,oro, barocco e argento. Le mani si sfregano continuamente l’una con l’altra e i polpastrelli gravidi inciampano in grosse pietre preziose che recano inciso il Sacro Simbolo: equo e giusto quanto quello degli altri.
Nella difesa di tale Potere alcuni Paladini si distinsero per buona fede e rettitudine nella quotidiana fatica di arginare il male, altri per l’alto senso di giustizia e per il coraggio.
Giusto sopra tutti il Conte Guiscardo D’Alamanno,
il cavaliere che li guida. Lu cavaleri ca li cumanna.
Gli Eroi Cristiani vengono alla luce con i Comandamenti del Simbolo impressi in un trasparente cordone ombelicale che non viene mai reciso. Non per libera scelta si astengono dal male perché basta la paura a tenerli lontani da esso. Il male, per loro, altro non è che nefasta ortica da estirpare dal cuore dei nemici infedeli.
Ancora giovani e inesperti alla vita vengono immersi in acque chiare e trasparenti di Sacri Fiumi e quelle acque, appena lambite dal Simbolo, diventano simili al dolce liquido amniotico.
Così, come prescrivono le Sacre Regole, i Cristiani mondano
dai loro corpi e dalle loro menti eventuali residui di peccato,
e solo così diventano puri.
Vantano discendenze e progenie tra i Latini e i Bizantini, Normanni e Longobardi. Traggono origini da quei lontani popoli che nel tempo diedero vita a Eufemio da Messina, Rainolfo di Montalbano e alla Famiglia degli Altavilla; sia del ramo di Guiscardo che in quello di Ruggiero. Tra i loro figli alcuni raggiunsero un elevato grado di totale purezza, mentre altri, nelle cui vene scorreva il fango,furono maestri di vili e violente azioni. Parecchi infine, restarono segnati da un’eterna paura morale.
Nel tempo antico anche i Greci seminarono il loro sperma intorno al Monte Gebel e alcune delle loro Divinità si trasferirono tra i boschi beati di Montalbano dando origine ad altre Divinità care ai Cristiani: Agata e Lucia, e i fratelli Alfio, Filadelfo e Cirino; questi ultimi torturati dal Tiranno Tertullo che aveva l’estremo pensiero duro più del marmo.
Queste ed altre Divinità vigilano sui Paladini Cristiani e sulle loro donne:
Su Guiscardo e su Costanza, sua promessa sposa.
● Sul Cavaliere Gualtiero che usò violenza a Albina
● Su Guglielmo il malo, tiranno come Tertullo ma diverso da quello per via dell’estremità più molle.
● Sul Conte Alaimo di Siracusa e su Ruggiero Conte
Anche fra quelli che frequentavano il Castello di Aci, v’erano Cristiani in mezzo ai Principi Azzurri e tra le Vitree Fanciulle dai morbidi fianchi.
Anche le colline sono morbide ai piedi del monte Gebel.
GUALTIERO
Nel corso della vita, il male si incunea tra la mente e il cuore degli uomini, tanto che anche i più forti a volte fanno fatica a fronteggiarlo.
Nel corso della sua vita il Cavaliere Gualtiero, figlio di Rainolfo, scoprì che anche in lui, pur essendo Cristiano, non avendone coscienza, si annidava il male e fu tanto il dolore provato che errò pazzo in eterno, tra i boschi di Montalbano. Accadde durante la battaglia ai piedi del Monte Gebel.
Gualtiero il Cristiano, inseguiva tra i nemici un cavaliere e l’aveva costretto a portarsi in un sentiero ombreggiato, ai margini del bosco, ponendoglisi dinanzi.
L’Infedele, costretto a bloccare la folle corsa del cavallo, era rovinato a terra e i legami della sua corazza si erano rotti in tanti punti.
In quell’istante Gualtiero ebbe davanti agli occhi la magnifica visione di morbide cosce divaricate che il sole del tramonto rendeva simili alla sanguigna. All’istante il desiderio s’impadronì di lui procurandogli lampi di saette all’estremità, e mentre Albina era ancora stordita le usò violenza continuando prepotente anche durante la lucidità e il continuo rifiuto di lei.
Nella lotta che ne seguì, la spada di Albina volò alta nell’aria e Gualtiero, quando lei aveva negli occhi la paura, senza
chiedersi perchè, la uccise.
Nella lotta che ne seguì, la spada di Albina volò alta nell’aria e Gualtiero, quando lei aveva negli occhi la paura, senza chiedersi perchè, la uccise.
Il dubbio che lui, Cristiano, avesse fatto ciò solo per cancellare le prove del suo peccato, lo rese pazzo. Ignari i suoi compagni, ancora oggi, lo credono morto e in viaggio per le radici del Monte Gebel, lido degli Eroi tutti.
Gli uomini che vivono sulla terra conservano i propri morti dentro case di legno. Poi si circondano di oggetti e a causa del ricordovivono con la persona amata come se questa non fosse mai andata via.
COSTANZA
Il castello di Montalbano è, ancora oggi, un fascio di linee spezzate che si ricompongono in una architettura essenziale. Volge il viso al sole che tramonta e, dominando sui boschi e le colline, ricorda ai piccoli villaggi che vi sono intorno che il Potere esiste ancora.
Le calde stanze del castello erano allegre nel tempo di pace e i suoni del cembalo si mescolavano ai sussurri e ai sorrisi delle belle dame. I cavalieri erano cortesi e i più giovani fra loro spandevano il seme allegramente.
In quelle stanze la bella Costanza aveva incontrato il Conte Guiscardo D’Alamanno e gli aveva fatto promessa delle sue freschezze. Durante il tempo della guerra, quelle stesse stanze erano diventate disadorne è dentro le prigioni di quel castello il Tiranno Abdu teneva i suoi prigionieri, maltrattandoli con una ferocia che era pari a quella del vile Tertullo.
Zamir-Ased, il giovane figlio di Abdu, non aveva ereditato nessuna delle malvagie doti del padre e il suo animo era gonfio di sola poesia. Egli vide un giorno, riflessa nello specchio, in una stanza del castello, la chiara immagine della bella Costanza prigioniera. Il Tiranno l’aveva tratta colà per carpirne la freschezza delle giovani carni. Meditava già che dopo averla tenuta per se, abusandone a suo piacimento, l’avrebbe ceduta in dono a Feraù di Magonza, pelato e coi muscoli d’acciaio. Più di una volta, sotto di lui, giovani fanciulle erano morte. In previsione del suo ritorno il turpe Abdu si faceva preparare, dalle brave ancelle, la fragile preda e quelle erano talmente brave da farne apparire accresciuta la bellezza, nonostante l’indescrivibile sofferenza che Costanza provava dentro il suoanimo.
Durante l’assenza del padre, Zamir lesse molte poesie a Costanza che conosceva già la dolce lingua della poesia.
Lui prese, attraverso la dolcezza di lei, cose che suo padre non avrebbe mai potuto prendere con la forza.
Le dolci parole di Zamir penetravano quel fertile terreno; tanto che sulla bocca di Costanza sbocciarono fiori simili ai baci. E quando l’amore di Zamir divenne totale, lei lo pregò di ucciderla piuttosto che lasciarla morire sotto il pesante pugno di Feraù.
Sicuramente la bella Costanza era giunta ormai a quel tratto in cui la mente degli uomini non riesce più a sopportare la sofferenza dell’animo. Pensando a Guiscardo pregava Zamir con parole di poesia:
Ad uno come te
ho promesso i petali dei miei fiori.
Solo a mani simili alle tue
avrei concesso di carezzare i miei cespugli.
Se ciò non fosse più possibile
vorrei che tu, con la tua mano,
mi rendessi inutile
mentre con l’altra accarezzi i miei cespugli.
Le bianche e lunghe braccia di Costanza erano protese verso di lui che stava accanto a lei.
Il vento passava in mezzo a quelle braccia, la scopriva dai veli e offriva a Zamir invitanti visioni. Si amarono.
Quando il piacere in mezzo a loro divenne umido, gli occhi di lei si chiusero perchè Zamir, colpendola nel fianco, la rese libera.
Anche sui fianchi del monte Gebel, alcune volte, si sono aperte profonde ferite. La rossa lava che da quelle ne è uscita, ha coperto, nel corso dei tempi, le terre coltivate e le case.
ZAMIR-ASED
Come una morbida collina t’avrei sfiorata,
ebbro sui fianchi,
fino a scivolare contro i tuoi cespugli.
Avrei amato i tuoi lenti e lunghi pendii
fino ai vortici di una lussuriosa confidenza.
Avrei amato te.
Il giovane principe Zamir-Ased con sapienza e giusto tono leggeva dal Libro dell’Amore ciò che legge l’amante che resta. Le parole cadevano pesantemente sul morbido e immobile corpo di Costanza. Il vento muoveva i veli su di lei e tutto ciò che prima era bianco lentamente diventava nero. Il dolore di Zamir era tanto grande quanto il suo amore e il libro che lui teneva tra le mani non aveva mai finecome il ricordo dell’amante che parte.
I capelli di Costanza erano biondi e il vento muoveva anche quelli.
Il dolore si era sviluppato nell’animo di Zamir da quando la calda voce dell’amore aveva armato la sua mano vuota di violenza. La bella Costanza gli aveva chiesto di non lasciare che il vento le muovesse le braccia sotto i veli; quelle braccia non dovevano servire per offrire i polsi a Feraù di Magonza che, dopo averla fatta schiava, l’avrebbe certamente consegnata ai propri soldatiche non toccavano donna da molto tempo.
A lei si chiusero gli occhi quando Zamir la rese libera, obbedendo alla terza legge del libro dell’Amore: “L’amore non rende schiavi”. Ma quel libro dettava anche un’altra legge: “Chi ama non uccide”.
Una fitta foresta di contrasti, da quel giorno, fu l’animo di Zamir e la sua voce ad altro non serviva che a dare suono a un pianto che ogni notte bagnava le pagine di quel libro:
…fino a scivolare contro i tuoi cespugli,
sui tuoi lunghi e lenti pendii,
fino al vortice di una lussuriosa confidenza
avrei amato te.
Zamir baciava per l’ultima volta il dolce viso di Costanza e per lei recitava nel pianto la legge degli Addii:
“Mi appare sfumato il tuo contorno, come l’abbozzo dell’artista disegnato con la mente. La tua forma evanescente era simile alla mia prima del distacco.
E’ forte il desiderio di tornare tra le calde cosce della Madre Terra”.
Ma le lunghe mani sottiliche avevano scritto il Libro dell’Amore, per contrastare negli uomini il desiderio di morte avevano subito dopo dettato la legge della Sublimazione:
“”Il ricordo che ho di te fa muovere le mie braccia
e il vento le agita forte come le cime dei pioppi”.
Tutte le leggi leggeva Zamir e prima del sonno quella del Desiderio teneva sempre per ultima:
Sulle morbide curve delle tue colline
e nel mezzo dei tuoi cespugli
fioriscono delizie primaverili.
Il contorno della tua immagine,
complice di lussuriose confidenze,
racchiude la dura forma del mio sentimento.
Nel renderti con la mente come fa l’artista
ti disegno morbida per contrastare la mia durezza,
ti disegno cava e ti disegno i seni.
Non resisto al desiderio di afferrare una pallida nube
e mentre tu, evanescente ti allontani,
io spando in aria, impotente,
i semi della mia solitaria lussuria.
Un temporale di nuvole grigie, passando sopra il Monte Gebel, si trascinava dietro i fasci luminosi di un nuovo giorno.
IL MARTIRIO DEI SANTI
Dall’alto del monte Gebel, i fiori dell’arancio appaiono simili a punti di luce, dentro il verde scuro delle lucide foglie.
Nel cielo vi sono occhi simili alla zagarache tutt’ora spandono luce propria fino al mare; attraversano le case e la mente di quella gente che punta spesso i propri occhi al cielo in cerca della luce.
Più intensa delle altre brilla la luce di colei che sulla terra fu privata della vista.
Brilla gialla e cristallina, dentro i vuoti occhi e nel cuore di Lucia.
Un’altra luce è quella dei fratelli Alfio, Filadelfo Cirino, che subirono tremende torture in vari luoghi e poi morirono, nella città delle arance, per ordine del vile Tertullo, tiranno di Lentini. Erano dei casti agnelli che percorrendo, ancora giovani, le vie del Simbolo ne avevano tratta una fede esclusiva e incrollabile. Su di loro si abbatté la violenta furia dei torturatori che coi modi meno gentili, suggeriti loro dall’astuzia, intendevano farli apostatare.
Per le bionde chiome furono sospesi i tre fratelli, dall’alba al tramonto, alla forca di un trave e coi piedi strettamente serrati in ceppi di legno. I loro corpi furono percossi con nervi di cuoiocome si usavacon gli schiavi più vili e a colpi di sasso furono straziate le loro bocche che non rinnegavano la fede nel Sacro Simbolo. Più subivano le torture e più i loro volti apparivano sereni: il candore della loro pelle era simile alle natiche dei bambini. Tali sevizie furono carezze al confronto di quelle che fece loro subire il terribile Tertullo. Questi li fece flagellare e poi passare sotto il getto della pece bollente e poiché erano ancora caparbi e testardi, il tiranno li mise a digiuno. Ordinò poi che dodici robusti manigoldi, distribuendosi in quattro per ogni fratello, si mettessero a sferzare con bastoni di palma quei teneri corpi e quelli lo fecero con tanta vigoria che ben presto i casti fratelli divennero lividi e laceri. Le piaghe si aggiungevano alle piaghe e il sangue stillava da ogni parte.
All’improvviso, mentre la furia dei boia segnava con violenza quelle carni, le braccia degli aguzzini, furono colte da paralisi e caddero loro di mano i flagelli. Molti di quelli che erano presenti credettero e di notte mani invisibili curarono le ferite dei tre fratelli.
Tutto ciò non bastò al perfido Tertulloche sempre più aveva negli occhi il colore della bile. Ordinò allora che fossero preparati uncini di ferro a forma di rastrelli, alle cui estremità fece fissare acutissimi aghi e, legati penzoloni i tre fratelli, ciascuno a un trave, li fece torturare con estrema e brutale violenza. E non volendo chemorissero sotto i colpi li rinchiuse ancora sanguinanti dentro le prigioni. Vedendoli il giorno dopo più sani e sereni di prima ordinò che si costruissero tre paia di calzari in ferro con suole irte di chiodi che sporgevano all’interno. Fece posare sui carboni ardenti queste sue creazioni e quando divennero simili al sole del tramonto, costrinse i tre giovani a indossarli. Li condannò a un rigoroso digiuno e poi,fatta liquefare col fuoco una gran quantità di pece e bitume la rovesciò sui corpi dei tre fratelli, distesi a terra, l’uno accanto all’altro. Ormai più niente fermava la rabbia di Tertullo: innanzi a lui le vittime tornavano sempre miracolosamente guarite.
Constatatane la fermezza, il feroce aguzzino diede ordine di approntare solenni preparativi di morte. Ad Alfio che parlava sempre troppo, fece strappare la lingua, lasciandolo poi morire dissanguato. Filadelfo fu stramazzato su una graticola arroventata da un gran fuoco, mentre Cirino, candido anch’egli come i suoi fratelli, infiammato dalla Grazia del Sacro Simbolo, si tuffò sereno e sorridente nella caldaia di pece, che per lui era stata preparata.
Questo accadeva intorno all’anno 253 e da allora, in alcune città intorno al monte Gebel, i nomi dei tre Martiri vengono ricordati con somma devozione, da tutti quelli che nel cielo ne cercano i volti luminosi.
Nello stesso periodo anche la buona Agata subì violenza per ordine di un potente. La fanciulla era ancora giovane quando il fascino della sua bellezza, unito alla sua illibatezza, venne alle orecchie del malvagio Quinziano. Questi, desideroso di fresca verginità e vista l’impossibilità di condurre il proprio vomero tra i cespugli di colei che solo al Sacro Simbolo voleva compiacere, fece consegnare la bella Agata alla matrona Afrodisia e alle sue nove corrottissime figlie, col solo compito di corromperne la purezza.
Per la durata di un intero mese le ragazze la condussero nei ritrovi dionisiaci allora in voga nella loro città. In quei luoghi Afrodisia e le sue perdute figlie, non solo i loro cespugli avevano offerto ai vomeri dei viandanti, ma tutto il territorio della loro lussuriosa vita.
La giovane e bella Agata, pur nelle loro mani, rimase intatta come tela di ragno; in tal modo, con cura e maestria, erano avvolti i suoi chiari e filiformi cespugli. Il voglioso Quinziano, travolto dalla furia della propria passione, capiva di non poter arrecare nessun sollievo al suo duro sentimento, giacché questo si piegava inesorabilmente contro la Fede di lei, equando la sua rabbia ebbe lo stesso colore della bile, il turpe Principe ordinò che alla giovane e bella Agata si torturasse il seno fino a strapparglielo.
Lei aveva la forma delle morbide fanciulle,
aveva i capelli quasi biondi
e la luce della Fede
illuminava per intero il suo viso.
La terra fu Scossa quando Agata morì e non solo quelli che ne vedevano la luce nel cielo odiarono quell’empio e crudele Tiranno che non ebbe vergogna a stroncare in una donna ciò che lui stesso aveva succhiato dalla madre.
In certi periodi dell’anno, gli uomini contadini che vivono intorno al Monte Gebel,
tagliano le cime degli alberi. Ma ciò è fatto a fin di bene.
NEL CASTELLO DI ACI
Il Castello di Aci appare come una monolitica difesa, conficcata sugli scogli davanti al blu del Mare Ionio.
Le Fanciulle che vi soggiornavano erano Vitree ecome Narcisoguardavano dentro i loro stessi occhi la propria bellezza. Non una che non fosse stata veramente bella poteva varcare la soglia del castello. Nessun guardiano sostava all’ingresso perchè solo lo splendore degli occhi delle Belle poteva aprirne gli spessi portoni. Era la sola luce dei loro occhi luminosi cheschiarendo la penombra indicava, lungo i corridoi di rosso mattone, il percorso da seguire.
Le Vitree Fanciulle sapevano di essere belle e desiderate. Erano particolarmente leggiadre e abituate, fin da piccole, a camminare su fragili tappeti di uova, badando che nessuno se ne rompesse. Con tali esercizi assumevano, col tempo, un’andatura libera e flessuosa che le faceva quasi volare, più che camminare. Non erano sciocche e vanitose ma bisognava che lo sembrassero perchè si concretizzasse l’antico e Sacro Anatema della bellezza fine a se stessa. Avevano guance simili alle rose i cui boccioli si trasformavano in labbra carnose; sembravano modellate dal vento e i loro fianchi scendevano a valle come i colli. Sotto le carezze erano simili al lucido scoglio lisciato da un mare continuo.
Alcune erano morbide e coi seni simili ai quelli delle madri che avevano allattato tanto coi larghi capezzoli. Possedevano cosce di schiuma; labbra come le vere labbra e avevano la tipica caratteristica del caldo afoso: quella sensazione di aver bevuto vino forte, sotto gli agrumeti, in un mezzogiorno d’agosto . Avevano il fuoco del Monte Gebel dentro di loro e non lo nascondevano.
AGRAMANTE
Nessuno tra i mortali che non sia forte coraggioso e sapiente può percorrere le lunghe vie percorse dall’Eroe.
E tra gli eroi non tutti pervengono a quel grado di conoscenza raggiunto da Agramante, Principe ereditario, Eroe purissimo degli Infedeli
Nato nella famiglia degli Aghlianì, formatasisecondo il racconto dei Padri, in una notte di luna piena, dal seme di un olivo venuto a contatto con la terra. Scuro nelle carni, aveva lampi dibianco sui denti e dentro gli occhi, zigomi sporgenti e ben modellati, pur non essendo angolosi.
Ancora giovane, abbandonò la casa paterna per cercare nel mondo le giuste vie del Sapere, del Coraggio e della Conoscenza. I ricordi, dentro di lui, erano simili a un’immagine riflessa e fu l’eterno desiderio a condurlo per mano.
Fu il racconto di lontane e antiche gestache lo sacrificò, portandolo a desiderare l’identica esperienza vissuta dagli Eroi. La sua vita divenne mezzo per raggiungere gli ideali e il suo corpo un trasparente involucro per i sentimenti, Nobili e puri i suoi pensieri e le gesta della sua vita furono sempre in sintonia con le leggi della Cavalleria. Infatti, dal nido dell’Eroe, devastato per la morte di Albina, non emerse nessun desiderio di rivalsa quando apprese che la bella Costanza, promessa sposa di Guiscardo, era stata uccisa dal Principe Zamir. Il Campione degli Infedeli indugiò anzi nel pianto, pensando simile al suo il dolore di Guiscardo.
I cuori dei nobili Cavalieri non conobbero mai quella triste rossastra virtù che talvolta è la vendetta! Tra i Cristiani solo il Conte Guiscardo D’Alamanno era suo pari.
Agramante non cercava la speranza, sorella della rassegnazione ma quella certezza dalla quale deriva la capacità di dare speranze agli uomini. Percorse la via del Sapere e conobbe parte del suo destino, consapevole che il volere degli Dei guidasse i suoi passi. Più avanti di lui, sul via della Conoscenza, erano gli Dei.
L’Eroe percorse pure la via del Coraggio e quella via gli dava la forza di non tacere la propria amarezza davanti alla parzialità e all’egoismo di certi Dei che spingevano gli uomini a combattere l’un contro l’altro, lasciando che la violenza scorresse fra loro, affinchè fosse la sconfitta del male a dimostrare il valore del bene.
Agramante percorse tutte le vie fino alla fonte dell’Acqua Chiara e bevendo da quella acquisì quel grado di conoscenza che tanti altri uomini non avevano raggiunto, e fra questi v’erano stati anche molti Eroi. La fresca acqua inondò la sua gola arsa e nell’attimo di maggior conoscenzail Monte Gebel esplose cupo e tenebroso vomitando la sua lava fino alle coste. Tutto sparì, perchè si fondasse un nuovo Potere; perchè altro terreno fertile fosse lasciato alla Fine Essenza di Purità, nuova meta di Agramante.
Se si fosse voltato indietro, avrebbe visto il mare azzurro e su di esso, una larga pianura che si inondava di una nuova alba. Pensò che, voltandosi indietro, avrebbe forse scelto il destino degli uomini e ricordò pure che su quelle pianure uomini della sua famiglia avevano seminato il grano. Alla sua mente venne anche l’immagine riflessa di Albina e, pensando che forse, l’avrebbe incontrata in avanti sul cammino, non si voltò indietro.
I contadini, durante la semina si difendono dal vento camminando all’ indietro.
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GLI INFEDELI
Vi sono uomini che leggono le stelle, altri che s’intendono di geometrie e altri ancora che pur avendo nel cuore la durezza conoscono i nomi dei fiori. I loro corpi vibrano a causa delle molteplici tensioni.
Posseggono il dono di Culture orientali, traggono conoscenza dall’osservazione delle stelle e pongono la loro vita al servizio di un ideale esclusivo. Conoscono i tempi dell’uomo e vivono in sintonia con la natura. Convinti che la pratica della trasgressione conduca all’esperienza, amano l’amore e pagano con la vita gli eventuali errori.
Quando il lungo cordone ombelicale viene loro reciso restano nudi di fronte alle vie del Perdersi e del Ritrovarsi. Hanno pelle scura di colore olivastro, saturo di caldo e deserto. Come sabbia, dentro il pugno chiuso, sfugge loro di mano la libertà. Nessun nemico tra i mortali riesce a imprigionare i loro sogni, animati come sono, da un unico, eterno, imprendibile desiderio.
Nel recondito del proprio nido il loro sentimento si trasforma in un gracile camaleonte, nascosto nell’immensa foresta emotiva di loro stessi.
Gli uomini che posseggono tali desideri si muovono come dune nel deserto: alcuni sono nomadi e la loro vita è l’immagine fedele del cuore e della mente.
Anche tra gli Infedeli vi sono uomini che hanno bui precipizi al posto del nido. Come il Tiranno Abdu e Magalibul. E Feraù di Magonza che fece sgozzare la madre perchè non partorisse altri figli. Simili uomini abbeverano nel sangue il loro egoismo e la loro malvagità.
Primo tra gli Infedeli, Agramante da Lentini, puro là dove pulsa il battito e nel pensiero.
Gli Infedeli discendono dai Nomadi e sono Saraceni. Alcuni sono nati nelle famiglie dei Muglabìti e dei Kalbìti; altri sono figli degli Aghlianì, di Ibn-Ummàbna.
LA FINE ESSENZA DI PURITA’
Oltre le rocce lisce di El Kantar, oltre le magie e gli incanti del bosco di Montalbano, fra le antiche rughe della Madre Terra, immerso in una nettarea sostanza gassosa il cui involucro è simile alla placenta, risiede stabilmente la Fine Essenza di Purità:
unico e essenziale Potere che sta sui Poteri della terra.
Al suo interno si forma e si sviluppa,autonomamente, quel Volere composto da ciò da cui proviene: Pietra, Ferro e Pensiero.
Ad ognuno di questi elementi si perviene percorrendo le vie del Sapere, del Coraggio e della Conoscenza.
Quanti, tra gli Eroi, riuscivano a sentire la carezza della luna piena di fineluglio; quanti tra i Campioni avvertivano in loro la pulsione emotiva del desiderio, uscire dal proprio nido; e solo a quelli come Agramante, cui la dolce Adalgisa concesse di vedere, ebbero la visione della Fine Essenza di Purità. La luce in quel momento appariva più chiara e splendente, senza essere accecante; tanto che gli occhi chiusifacevano vedere più nitido e più chiaro.
Per avere tale visione, le gambe degli Eroi avevano sopportato la fatica notturna di recarsi sulla cima del Gebel. Le loro guance avevano sentito, come un forte richiamo, la carezza della luna piena e i loro occhi avevano incontrato, in mezzo al cammino, l’antico e pregiato cirneco che li avrebbe accompagnati fino alla meta.
Dall’alto del monte, tra le pieghe della vecchia terra, potevano vedere rughe ancora più antiche e dentro queste, in uno spazio sconfinato, una montagna. Aveva la forma di un morbido corpo di donna, inserito sotto arcaici e monumentali sistemi architravati di marmo bianco.
Nell’apparente ventre, azzurro come il cielo, galleggiava un’enorme sfera: sembrava che il vento la spingesse e sembrava ferma; quasi volasse, sul mare, a pelo d’acqua. I seni, anch’essi di marmo, erano come quelli delle morbide Fanciulle del Castello di Aci e dalla testa, staccata dal tronco, cascava un’acqua del colore della purezza.
Cadendo, quell’acqua, lisciava le rocce, si trasformava in fiume e dava la vita agli uomini. Uno di questi fiumi, percorrendo da tempo la terra, aveva scavato una lunga ferita, segnando le rocce di El Kantar.
Sul fianco dell’apparente corpo di donna, sul confine simmetrico tra la notte e il giorno, da un trono di luce che appariva di vetro e sembrava di marmo, la Fine Essenza di Purità manifestava il suo Volere sotto forma di enormi sfere gialle che,simili a pianeti, si proiettavano su tutto: sulla vita degli uomini, delle piante, sugli animali, sull’aria che respiriamo.
Sulla terra, intorno al Monte Gebel, vi sono ulivi e fico dell’india, agavi,ginestre,salici e rovi.
LA MORTE
Il faro della luna, alto nel cielo, proiettava una lunga ombra scura che copriva i pascoli, coglieva rovi e mieteva sterpi. In riva al mare, dove si era portata una parte della battaglia, la Morte dispensava i suoi freddi e funesti abbracci. La sua ombra non metteva paura perché, sulle scarne ossa, lei che poteva, si era modellata la calda carne di un’amante.
Le sue braccia erano lunghe magre e la sua mano aveva dita sottili. Il colore gelido della sua carne inondava il corpo delle vittime e tutto ciò che prima era caldo di colpo diventava freddo. I tondi seni offriva ai cavalieri che d’improvviso sentivano un caldo desiderio indurirsi sotto la corazza. Coi neri occhi li attirava; tanto da non potevano legarei a nessun palo.
V’erano uomini che resistevano al canto delle sirene e ve n’erano altri che la morte in battaglia, come parte della vita, la cercavano.
Una tempesta dimare erano gli orgasmi viola della Morte; prolungati e contemporanei. Sottoposto al viola, il caldo desiderio dei cavalieri ingialliva e la loro mano, protesa alla vita, si raggelava al contatto di quella di lei, che in gelide ossa si trasformava lentamente, tanto che ambedue diventavano fredde come un marmo bianco.
Nelle calde alcove delle amanti in attesa, sferzate di quel freddo arrivavano, e in quei momenti il desiderio delle donne diventava enorme.
Simile era stato il desiderio di quegli uomini che, soggiogati dalla Morte,ne praticarono in profondità l’acerbo cespuglio. Tratti in inganno, gustarono con lei delizie mai provate prima. Grande, largo e profondo era, infatti, il cespuglio della Morte e di tutti quelli che vi finirono dentro mai più nessuno fece ritorno.
Dai paesi intorno al monte Gebel, alcuni uomini, gli emigranti, partivano attirati dalla fame; si infilavano nelle viscere della terra e il sole non lo vedevano mai. Nelle case di quei paesi, di sera, alitava l’assenza.
LA BATTAGLIA
Non v’era luogo intorno al Monte Gebel che non fosse macchiato di sangue e spighe da mietere sembravano gli uomini visti da lontano.
Non era temporale nel cielo, non era notte e non c’era il sole quando il Gebel, tuonando cupo, copri di tenebre la terra. Sui Suoi fianchi si aprirono larghe e profonde ferite.
Il respiro della terra che prima era affannato, ora saliva vigoroso e il vomito della sua inarrestabile sostanza ricopriva di rosso e di scuro i campi e le cose, gli uomini e gli animali.
Per molti giorni si sentirono i boati fino al mare e fino al mare arrivò la rossa lava che cancellava e seppelliva tutto.
Con la lava del Monte Gebel gli uomini scalpellini hanno costruito nuove case. Queste sono sparse un po’ ovunque ma non è possibile scavarle per vederne le radici.
EPILOGO
Alcuni uomini non credono che ciò possa essere accaduto e increduli non prestano orecchio alla voce di quelli che cantano:
Lu Cavaleri Guiscardo D’Alamanno,
Paladinu di lu Sacru puteri novu,
contracummatti cu Agramante da Lentini,
Principi Ereditariu e Campiuni di li Sarracini.
Ci sono altri uomini che quella voce conoscono e ne imitano il canto.
Sarebbe bene che in tutte le piazze si cantasse di guerre che non sono e che fosse il solo canto di uomini giusti a darci le immagini di nuovi Eroi.
…
Sarebbe altrettanto opportuno che le Arti Figurative riprendessero l’antico esercizio di parlare degli uomini riportando le immagini ai giusti significati e alle giuste forme:
Il Disegno fine ed elegante,
la Scultura vigorosa e immediata,
la Pittura morbida e onirica
IL MONTE GEBEL di Salvo Cansone – 1985
Prefazione di Santi Correnti
Luigi Pirandello, nella sua mirabile prefazione ai suoi “Sei personaggi in cerca d’autore”, diceva che egli aveva una servetta, di nome Fantasia, da lui definita “sveltissima e nuova sempre del mestiere, e da tanti anni al servizio della mia arte”, che gli portava in casa straordinari soggetti da trattare, dato che apparteneva agli scrittori “di natura non storica ma, filosofica”.
A questo stesso genere di scrittori appartiene indubbiamente Salvo Cansone, dal momento che egli afferma, in un punto chiave della sua presente opera, che “Vi sono uomini che leggono le stelle, altri che si intendono di geometrie, e altri che, pur avendo nel cuore la durezza, conoscono i nomi dei fiori. I loro corpi vibrano a causa delle molteplici tensioni”.
Chi è questo epigono di Pirandello, che tiene anch’egli al suo servizio la servetta chiamata Fantasia? E’ un artista nato in Sicilia, in quella Lentini che non è solo terra di profumate arance, ma anche patria di filosofi, di poeti, e di Santi: di filosofi come Gorgia, che già nel V secolo a.C. faceva sbalordire gli Ateniesi, parlando a lungo del discorso giusto, e altrettanto a lungo del discorso ingiusto, e dimostrando falso quanto aveva precedentemente dimostrato vero; di poeti come Jacopo, citato perfino da Dante, e che invitava le donne a dare a lui il desiato amore con versi gentili e deliziosi: lo vostro amor, ch’è caro donatelo al Notaro ch’è nato da Lentino; e di santi, come i tre fratelli guasconi Alfio, Filadelfo e Cirino, che proprio a Lentini affrontarono impavidi il martirio, e che lì si addormentarono sereni nel bacio del Signore, attendendo il suono dell’angelica tromba, che li farà risorgere splendidi di bellezza e fulgidi di santità.
Ma Lentini è pure patria di guerrieri come Alàimo, uno dei tre eroi del Vespro siciliano, che guidò il suo popolo alla riscossa sanguinosa contro l’insolente oppressore; ed è pure la patria di architetti come Riccardo, il collaboratore insigne di quel grande imperatore che fu Federico II di Svevia, per il quale costruì i magnifici castelli di Catania e di Augusta, con torri e baluardi che hanno sfidato i secoli.
Tutti questi elementi – la speculazione intellettiva di Gorgia, il senso poetico di Jacopo, l’ardore mistico dei tre Santi fratelli, il vigore guerriero di Alàimo e il genio costruttivo di Riccardo – alimentati e corroborati dalla servetta che Pirandello ha evidentemente ceduto al suo epigono, confluiscono nell’arte creativa di Salvo Cansone, e gli hanno fatto realizzare, d’impeto e di getto, questo poema epico e figurativo che è Il Monte Gebel.
Come il magma infuocato che esce dai crateri dell’Etna –perché il monte Gebel altro non che l’Etna, che i siciliani chiamano proprio così, il Mongibello, cioè il monte dei monti; e un’antica poesia siciliana afferma che lu munti di li munti è Mungibeddu: la cima tocca lu celu stillatu, e quantu spinci supra lu liveddu, tantu scinni sutt’acqua smisuratu… (Mongibello è il monte dei monti – la cima tocca il cielo stellato – e quanto s’innalza sopra il livello del mare – altrettanto scende sott’acqua smisurato…) -sa trasformare e unificare i vari elementi chimici che lo compongono, così Cansone nel suo poema figurativo sa amalgamare e unificare tutte le estrosità della sua fantasia, tutti i colori della sua tavolozza, tutta la vitalità e la drammaticità della sua scultura, fervidamente fusi dalla sua vivacità isolana, che è ribollente ed incandescente proprio come la lava del suo vulcano, da cui il poema figurativo di Salvo Cansone prende il nome.
Leggere Il Monte Gebel di questo artista siciliano trapiantatosi in Lombardia, dove il suo estro originale e personalissimo ha già trovato modo di affermarsi ampiamente, è come librarsi in un cielo terso e luminoso, sulle ali di un canto che sgorga da un cuore fervido e appassionato, e che ci porta in alto, verso l’eterno, in una sublimazione senza confini.
Il paesaggio siciliano, che è di per se stesso suggestivo ed affascinante, come quel castello di Aci che, come dice l’autore, appare come una monolitica difesa conficcato sugli scogli davanti al blu del mare Jonio, qui diventa trasfigurato ed etereo.
Questa nuova opera di Salvo Cansone attinge spesso alle fonti della più estrosa fantasia, ed illumina di una luce soave la mente del lettore che si accosta alle parole, luminose come le figure che accompagnano il testo, mostrandoci una realtà siciliana che è ben diversa dai soliti e squallidi temi della mafia e della delinquenza, con i quali generalmente e superficialmente viene identificata la Sicilia.
Un’opera nuova e interessante, dunque, questa di Cansone, di un’originalità coinvolgente e seducente, che rapisce ed incanta, e in cui la realtà si trasfigura nel sogno e nella fantasia, facendoci liberamente vagare per i sentieri dello spirito, con un caleidoscopio iridescente di sentimenti e di passioni, in cui la sostanziale sicilianità dell’autore (che non cade mai nel sicilianismo, o peggio nella sicilitudine), finisce per assurgere a connotazioni universali, legando la parola all’immagine e l’immagine alla parola, facendo vibrare tutto il nostro essere con molteplici tensioni, come suggestivamente dice l’autore.
Un libro magico Il Monte Gebel, da cui alla fine si leva un canto di pace, un canto le cui parole, facciamo volentieri nostre, perché
“sarebbe bene che in tutte le piazze – si cantasse di guerre che non sono – e che fosse il solo canto di uomini giusti – a darci le immagini di nuovi eroi”.
Santi Correnti
INTRODUZIONE
Sulla cima dell’Etna è possibile sentire il respiro lento e un pò affannato della vecchia terra e ogni volta pare che debba essere l’ultimo.
Io cedetti alle lusinghe delle stelle in una notte in cui, dentro di me, non c’era vanità né presunzione, ed ebbi sulla guancia segnata dalla fatica, la tonda carezza della luna piena di fineluglio.
Quando le guglie di pietra lavica, illuminate da un solo lato, mi apparvero come cattedrali gotiche e quando gli arabeschi argentati delle soffici nuvole divennero grasse rotondità barocche, ebbi in regalo dal cielo, la visione di un uccello che mi portava in dono la storia del Monte Gebel.
I ontorni della montagna mi parvero allora più chiari e le mie orecchie udirono la musica del lontano bosco di Montalbano. Viaggiando su quella musica ebbi la visione della Caverna Incantata e comparve davanti ai miei occhi, ormai simili alle stelle, la dolce Adalgisa, regina di quel luogo.
Le sue guance avevano il colore delle arance e lei distesa accanto a me, su morbidi tappeti di foglie, modellava con le sue labbra le parole del racconto:
…Nei pressi del monte Gebel il Cavaliere Guiscardo D’Alamanno, Paladino dei Cristiani, combatte contro Agramante da Lentini, Principe Ereditario, Eroe degli Infedeli…
Il sogno era ormai aperto e le visioni che ebbi al suo interno furononitide e colorate: i documenti della Storia si mischiarono alla fantasia come morbide parole sulla tavolozza del pittore.
…Adalgisa aveva ornato con la zagara i suoi capelli e mi raccontava di uomini mai esistiti. Le sue parole mi sembrarono vere perché le immagini vedevo dentro gli occhi di lei:
Albina, l’amante scura e coraggiosa di Agramante, figlia di Jbn el Moussa che non può sottrarsi al fato che la vuole uccisa dopo aver subito violenza da Gualtiero.
● La bella Costanza, promessa sposa di Guiscardo che invoca il giovane Zamir di darle la prova dell’amore più forte.
● Il potere malevolo di alcuni Dei, serpeggiando nella mente di uomini malvagi fa subire orribili e sadiche torture ai Fratelli Protettori della città di Lentini. Lucia è privata della luce degli occhi e la bella Agata è orrendamente amputata.
● Il Castello di Aci, nelle cui stanze Fanciulle di armoniosa bellezza, vagheggiando lontane e fumose chimere, offrendo ai Duri Cavalieri la fragranza delle proprie primizie.
● Agramante insegue i propri ideali sulle vie del Sapere, del Coraggio e della Conoscenza. Per quelle vie si manifesta il Potere degli Dei e quello del POTERE sul Potere degli Dei: la “Fine Essenza di Purità” che al di sopra di se ha solo se stessa.
● Lo strapotere di alcuni Dei, al quale gli uomini a volte non possono sottrarsi, crea illusioni e determina speranze in mondi immaginari e inesistenti.
● La Morte assumendo le sembianze di una calda femmina vogliosa miete le sue vittime con l’unico desiderio d’impadronirsi con l’amplesso del seme ormai inutile alla vita.
Il sogno era ormai aperto e le visioni che ebbi al suo interno furononitide e colorate: i documenti della Storia si mischiarono alla fantasia come morbide parole sulla tavolozza del pittore.
…Adalgisa aveva ornato con la zagara i suoi capelli e mi raccontava di uomini mai esistiti. Le sue parole mi sembrarono vere perché le immagini vedevo dentro gli occhi di lei:
La calma e serena Adalgisa narrava simili storie alla mia fertile ma ignorante mente e la dolce lusinga delle stelle, soporifera di zagara, ne rendeva ancora più chiari i contorni. Le immagini, come un fiume, scorrevano ormai su tutto il corpo di lei e tanto ne rimasi lusingato da non accorgermi che lei svaniva mentre sfogliavo le mie mani come un libro.
Anche Omero parla di uomini cui la malia fece vedere cose che non erano e nelle piazze, intorno al Monte Gebel, altri uomini, alcune volte, raccontano di cose che non sono:
“…lu Cavaleri Guiscardo D’Alamanno Paladinu di lu Sacru puteri novu, contracummatti cu Agramante da Lentini, Principe Ereditariu e Campiuni di li Sarracini…”
La calma e serena Adalgisa narrava simili storie alla mia fertile ma ignorante mente e la dolce lusinga delle stelle, soporifera di zagara, ne rendeva ancora più chiari i contorni. Le immagini, come un fiume, scorrevano ormai su tutto il corpo di lei e tanto ne rimasi lusingato da non accorgermi che lei svaniva mentre sfogliavo le mie mani come un libro.
Dalla cima del Monte Gebel si può vedere la notte, diradarsi lentamente, sospinta da una nuova realtà.
(I Cristiani?)
I PALADINI DEL SACRO SIMBOLO
Sono loro il braccio armato di un Potere religioso e culturale costruito attraverso i secoli nella omertosa penombra di corridoi bui e silenziosi tirati a cera. Corridoi percorsi da figure pancia-piena coperte di ninnoli e ricami,oro, barocco e argento. Le mani si sfregano continuamente l’una con l’altra e i polpastrelli gravidi inciampano in grosse pietre preziose che recano inciso il Sacro Simbolo: equo e giusto quanto quello degli altri.
Nella difesa di tale Potere alcuni Paladini si distinsero per buona fede e rettitudine nella quotidiana fatica di arginare il male, altri per l’alto senso di giustizia e per il coraggio.
Giusto sopra tutti il Conte Guiscardo D’Alamanno,
il cavaliere che li guida. Lu cavaleri ca li cumanna.
Gli Eroi Cristiani vengono alla luce con i Comandamenti del Simbolo impressi in un trasparente cordone ombelicale che non viene mai reciso. Non per libera scelta si astengono dal male perché basta la paura a tenerli lontani da esso. Il male, per loro, altro non è che nefasta ortica da estirpare dal cuore dei nemici infedeli.
Ancora giovani e inesperti alla vita vengono immersi in acque chiare e trasparenti di Sacri Fiumi e quelle acque, appena lambite dal Simbolo, diventano simili al dolce liquido amniotico.
Così, come prescrivono le Sacre Regole, i Cristiani mondano
dai loro corpi e dalle loro menti eventuali residui di peccato,
e solo così diventano puri.
Vantano discendenze e progenie tra i Latini e i Bizantini, Normanni e Longobardi. Traggono origini da quei lontani popoli che nel tempo diedero vita a Eufemio da Messina, Rainolfo di Montalbano e alla Famiglia degli Altavilla; sia del ramo di Guiscardo che in quello di Ruggiero. Tra i loro figli alcuni raggiunsero un elevato grado di totale purezza, mentre altri, nelle cui vene scorreva il fango,furono maestri di vili e violente azioni. Parecchi infine, restarono segnati da un’eterna paura morale.
Nel tempo antico anche i Greci seminarono il loro sperma intorno al Monte Gebel e alcune delle loro Divinità si trasferirono tra i boschi beati di Montalbano dando origine ad altre Divinità care ai Cristiani: Agata e Lucia, e i fratelli Alfio, Filadelfo e Cirino; questi ultimi torturati dal Tiranno Tertullo che aveva l’estremo pensiero duro più del marmo.
Queste ed altre Divinità vigilano sui Paladini Cristiani e sulle loro donne:
Su Guiscardo e su Costanza, sua promessa sposa.
● Sul Cavaliere Gualtiero che usò violenza a Albina
● Su Guglielmo il malo, tiranno come Tertullo ma diverso da quello per via dell’estremità più molle.
● Sul Conte Alaimo di Siracusa e su Ruggiero Conte
Anche fra quelli che frequentavano il Castello di Aci, v’erano Cristiani in mezzo ai Principi Azzurri e tra le Vitree Fanciulle dai morbidi fianchi.
Anche le colline sono morbide ai piedi del monte Gebel.
GUALTIERO
Nel corso della vita, il male si incunea tra la mente e il cuore degli uomini, tanto che anche i più forti a volte fanno fatica a fronteggiarlo.
Nel corso della sua vita il Cavaliere Gualtiero, figlio di Rainolfo, scoprì che anche in lui, pur essendo Cristiano, non avendone coscienza, si annidava il male e fu tanto il dolore provato che errò pazzo in eterno, tra i boschi di Montalbano. Accadde durante la battaglia ai piedi del Monte Gebel.
Gualtiero il Cristiano, inseguiva tra i nemici un cavaliere e l’aveva costretto a portarsi in un sentiero ombreggiato, ai margini del bosco, ponendoglisi dinanzi.
L’Infedele, costretto a bloccare la folle corsa del cavallo, era rovinato a terra e i legami della sua corazza si erano rotti in tanti punti.
In quell’istante Gualtiero ebbe davanti agli occhi la magnifica visione di morbide cosce divaricate che il sole del tramonto rendeva simili alla sanguigna. All’istante il desiderio s’impadronì di lui procurandogli lampi di saette all’estremità, e mentre Albina era ancora stordita le usò violenza continuando prepotente anche durante la lucidità e il continuo rifiuto di lei.
Nella lotta che ne seguì, la spada di Albina volò alta nell’aria e Gualtiero, quando lei aveva negli occhi la paura, senza
chiedersi perchè, la uccise.
Nella lotta che ne seguì, la spada di Albina volò alta nell’aria e Gualtiero, quando lei aveva negli occhi la paura, senza chiedersi perchè, la uccise.
Il dubbio che lui, Cristiano, avesse fatto ciò solo per cancellare le prove del suo peccato, lo rese pazzo. Ignari i suoi compagni, ancora oggi, lo credono morto e in viaggio per le radici del Monte Gebel, lido degli Eroi tutti.
Gli uomini che vivono sulla terra conservano i propri morti dentro case di legno. Poi si circondano di oggetti e a causa del ricordovivono con la persona amata come se questa non fosse mai andata via.
COSTANZA
Il castello di Montalbano è, ancora oggi, un fascio di linee spezzate che si ricompongono in una architettura essenziale. Volge il viso al sole che tramonta e, dominando sui boschi e le colline, ricorda ai piccoli villaggi che vi sono intorno che il Potere esiste ancora.
Le calde stanze del castello erano allegre nel tempo di pace e i suoni del cembalo si mescolavano ai sussurri e ai sorrisi delle belle dame. I cavalieri erano cortesi e i più giovani fra loro spandevano il seme allegramente.
In quelle stanze la bella Costanza aveva incontrato il Conte Guiscardo D’Alamanno e gli aveva fatto promessa delle sue freschezze. Durante il tempo della guerra, quelle stesse stanze erano diventate disadorne è dentro le prigioni di quel castello il Tiranno Abdu teneva i suoi prigionieri, maltrattandoli con una ferocia che era pari a quella del vile Tertullo.
Zamir-Ased, il giovane figlio di Abdu, non aveva ereditato nessuna delle malvagie doti del padre e il suo animo era gonfio di sola poesia. Egli vide un giorno, riflessa nello specchio, in una stanza del castello, la chiara immagine della bella Costanza prigioniera. Il Tiranno l’aveva tratta colà per carpirne la freschezza delle giovani carni. Meditava già che dopo averla tenuta per se, abusandone a suo piacimento, l’avrebbe ceduta in dono a Feraù di Magonza, pelato e coi muscoli d’acciaio. Più di una volta, sotto di lui, giovani fanciulle erano morte. In previsione del suo ritorno il turpe Abdu si faceva preparare, dalle brave ancelle, la fragile preda e quelle erano talmente brave da farne apparire accresciuta la bellezza, nonostante l’indescrivibile sofferenza che Costanza provava dentro il suoanimo.
Durante l’assenza del padre, Zamir lesse molte poesie a Costanza che conosceva già la dolce lingua della poesia.
Lui prese, attraverso la dolcezza di lei, cose che suo padre non avrebbe mai potuto prendere con la forza.
Le dolci parole di Zamir penetravano quel fertile terreno; tanto che sulla bocca di Costanza sbocciarono fiori simili ai baci. E quando l’amore di Zamir divenne totale, lei lo pregò di ucciderla piuttosto che lasciarla morire sotto il pesante pugno di Feraù.
Sicuramente la bella Costanza era giunta ormai a quel tratto in cui la mente degli uomini non riesce più a sopportare la sofferenza dell’animo. Pensando a Guiscardo pregava Zamir con parole di poesia:
Ad uno come te
ho promesso i petali dei miei fiori.
Solo a mani simili alle tue
avrei concesso di carezzare i miei cespugli.
Se ciò non fosse più possibile
vorrei che tu, con la tua mano,
mi rendessi inutile
mentre con l’altra accarezzi i miei cespugli.
Le bianche e lunghe braccia di Costanza erano protese verso di lui che stava accanto a lei.
Il vento passava in mezzo a quelle braccia, la scopriva dai veli e offriva a Zamir invitanti visioni. Si amarono.
Quando il piacere in mezzo a loro divenne umido, gli occhi di lei si chiusero perchè Zamir, colpendola nel fianco, la rese libera.
Anche sui fianchi del monte Gebel, alcune volte, si sono aperte profonde ferite. La rossa lava che da quelle ne è uscita, ha coperto, nel corso dei tempi, le terre coltivate e le case.
ZAMIR-ASED
Come una morbida collina t’avrei sfiorata,
ebbro sui fianchi,
fino a scivolare contro i tuoi cespugli.
Avrei amato i tuoi lenti e lunghi pendii
fino ai vortici di una lussuriosa confidenza.
Avrei amato te.
Il giovane principe Zamir-Ased con sapienza e giusto tono leggeva dal Libro dell’Amore ciò che legge l’amante che resta. Le parole cadevano pesantemente sul morbido e immobile corpo di Costanza. Il vento muoveva i veli su di lei e tutto ciò che prima era bianco lentamente diventava nero. Il dolore di Zamir era tanto grande quanto il suo amore e il libro che lui teneva tra le mani non aveva mai finecome il ricordo dell’amante che parte.
I capelli di Costanza erano biondi e il vento muoveva anche quelli.
Il dolore si era sviluppato nell’animo di Zamir da quando la calda voce dell’amore aveva armato la sua mano vuota di violenza. La bella Costanza gli aveva chiesto di non lasciare che il vento le muovesse le braccia sotto i veli; quelle braccia non dovevano servire per offrire i polsi a Feraù di Magonza che, dopo averla fatta schiava, l’avrebbe certamente consegnata ai propri soldatiche non toccavano donna da molto tempo.
A lei si chiusero gli occhi quando Zamir la rese libera, obbedendo alla terza legge del libro dell’Amore: “L’amore non rende schiavi”. Ma quel libro dettava anche un’altra legge: “Chi ama non uccide”.
Una fitta foresta di contrasti, da quel giorno, fu l’animo di Zamir e la sua voce ad altro non serviva che a dare suono a un pianto che ogni notte bagnava le pagine di quel libro:
…fino a scivolare contro i tuoi cespugli,
sui tuoi lunghi e lenti pendii,
fino al vortice di una lussuriosa confidenza
avrei amato te.
Zamir baciava per l’ultima volta il dolce viso di Costanza e per lei recitava nel pianto la legge degli Addii:
“Mi appare sfumato il tuo contorno, come l’abbozzo dell’artista disegnato con la mente. La tua forma evanescente era simile alla mia prima del distacco.
E’ forte il desiderio di tornare tra le calde cosce della Madre Terra”.
Ma le lunghe mani sottiliche avevano scritto il Libro dell’Amore, per contrastare negli uomini il desiderio di morte avevano subito dopo dettato la legge della Sublimazione:
“”Il ricordo che ho di te fa muovere le mie braccia
e il vento le agita forte come le cime dei pioppi”.
Tutte le leggi leggeva Zamir e prima del sonno quella del Desiderio teneva sempre per ultima:
Sulle morbide curve delle tue colline
e nel mezzo dei tuoi cespugli
fioriscono delizie primaverili.
Il contorno della tua immagine,
complice di lussuriose confidenze,
racchiude la dura forma del mio sentimento.
Nel renderti con la mente come fa l’artista
ti disegno morbida per contrastare la mia durezza,
ti disegno cava e ti disegno i seni.
Non resisto al desiderio di afferrare una pallida nube
e mentre tu, evanescente ti allontani,
io spando in aria, impotente,
i semi della mia solitaria lussuria.
Un temporale di nuvole grigie, passando sopra il Monte Gebel, si trascinava dietro i fasci luminosi di un nuovo giorno.
IL MARTIRIO DEI SANTI
Dall’alto del monte Gebel, i fiori dell’arancio appaiono simili a punti di luce, dentro il verde scuro delle lucide foglie.
Nel cielo vi sono occhi simili alla zagarache tutt’ora spandono luce propria fino al mare; attraversano le case e la mente di quella gente che punta spesso i propri occhi al cielo in cerca della luce.
Più intensa delle altre brilla la luce di colei che sulla terra fu privata della vista.
Brilla gialla e cristallina, dentro i vuoti occhi e nel cuore di Lucia.
Un’altra luce è quella dei fratelli Alfio, Filadelfo Cirino, che subirono tremende torture in vari luoghi e poi morirono, nella città delle arance, per ordine del vile Tertullo, tiranno di Lentini. Erano dei casti agnelli che percorrendo, ancora giovani, le vie del Simbolo ne avevano tratta una fede esclusiva e incrollabile. Su di loro si abbatté la violenta furia dei torturatori che coi modi meno gentili, suggeriti loro dall’astuzia, intendevano farli apostatare.
Per le bionde chiome furono sospesi i tre fratelli, dall’alba al tramonto, alla forca di un trave e coi piedi strettamente serrati in ceppi di legno. I loro corpi furono percossi con nervi di cuoiocome si usavacon gli schiavi più vili e a colpi di sasso furono straziate le loro bocche che non rinnegavano la fede nel Sacro Simbolo. Più subivano le torture e più i loro volti apparivano sereni: il candore della loro pelle era simile alle natiche dei bambini. Tali sevizie furono carezze al confronto di quelle che fece loro subire il terribile Tertullo. Questi li fece flagellare e poi passare sotto il getto della pece bollente e poiché erano ancora caparbi e testardi, il tiranno li mise a digiuno. Ordinò poi che dodici robusti manigoldi, distribuendosi in quattro per ogni fratello, si mettessero a sferzare con bastoni di palma quei teneri corpi e quelli lo fecero con tanta vigoria che ben presto i casti fratelli divennero lividi e laceri. Le piaghe si aggiungevano alle piaghe e il sangue stillava da ogni parte.
All’improvviso, mentre la furia dei boia segnava con violenza quelle carni, le braccia degli aguzzini, furono colte da paralisi e caddero loro di mano i flagelli. Molti di quelli che erano presenti credettero e di notte mani invisibili curarono le ferite dei tre fratelli.
Tutto ciò non bastò al perfido Tertulloche sempre più aveva negli occhi il colore della bile. Ordinò allora che fossero preparati uncini di ferro a forma di rastrelli, alle cui estremità fece fissare acutissimi aghi e, legati penzoloni i tre fratelli, ciascuno a un trave, li fece torturare con estrema e brutale violenza. E non volendo chemorissero sotto i colpi li rinchiuse ancora sanguinanti dentro le prigioni. Vedendoli il giorno dopo più sani e sereni di prima ordinò che si costruissero tre paia di calzari in ferro con suole irte di chiodi che sporgevano all’interno. Fece posare sui carboni ardenti queste sue creazioni e quando divennero simili al sole del tramonto, costrinse i tre giovani a indossarli. Li condannò a un rigoroso digiuno e poi,fatta liquefare col fuoco una gran quantità di pece e bitume la rovesciò sui corpi dei tre fratelli, distesi a terra, l’uno accanto all’altro. Ormai più niente fermava la rabbia di Tertullo: innanzi a lui le vittime tornavano sempre miracolosamente guarite.
Constatatane la fermezza, il feroce aguzzino diede ordine di approntare solenni preparativi di morte. Ad Alfio che parlava sempre troppo, fece strappare la lingua, lasciandolo poi morire dissanguato. Filadelfo fu stramazzato su una graticola arroventata da un gran fuoco, mentre Cirino, candido anch’egli come i suoi fratelli, infiammato dalla Grazia del Sacro Simbolo, si tuffò sereno e sorridente nella caldaia di pece, che per lui era stata preparata.
Questo accadeva intorno all’anno 253 e da allora, in alcune città intorno al monte Gebel, i nomi dei tre Martiri vengono ricordati con somma devozione, da tutti quelli che nel cielo ne cercano i volti luminosi.
Nello stesso periodo anche la buona Agata subì violenza per ordine di un potente. La fanciulla era ancora giovane quando il fascino della sua bellezza, unito alla sua illibatezza, venne alle orecchie del malvagio Quinziano. Questi, desideroso di fresca verginità e vista l’impossibilità di condurre il proprio vomero tra i cespugli di colei che solo al Sacro Simbolo voleva compiacere, fece consegnare la bella Agata alla matrona Afrodisia e alle sue nove corrottissime figlie, col solo compito di corromperne la purezza.
Per la durata di un intero mese le ragazze la condussero nei ritrovi dionisiaci allora in voga nella loro città. In quei luoghi Afrodisia e le sue perdute figlie, non solo i loro cespugli avevano offerto ai vomeri dei viandanti, ma tutto il territorio della loro lussuriosa vita.
La giovane e bella Agata, pur nelle loro mani, rimase intatta come tela di ragno; in tal modo, con cura e maestria, erano avvolti i suoi chiari e filiformi cespugli. Il voglioso Quinziano, travolto dalla furia della propria passione, capiva di non poter arrecare nessun sollievo al suo duro sentimento, giacché questo si piegava inesorabilmente contro la Fede di lei, equando la sua rabbia ebbe lo stesso colore della bile, il turpe Principe ordinò che alla giovane e bella Agata si torturasse il seno fino a strapparglielo.
Lei aveva la forma delle morbide fanciulle,
aveva i capelli quasi biondi
e la luce della Fede
illuminava per intero il suo viso.
La terra fu Scossa quando Agata morì e non solo quelli che ne vedevano la luce nel cielo odiarono quell’empio e crudele Tiranno che non ebbe vergogna a stroncare in una donna ciò che lui stesso aveva succhiato dalla madre.
In certi periodi dell’anno, gli uomini contadini che vivono intorno al Monte Gebel,
tagliano le cime degli alberi. Ma ciò è fatto a fin di bene.
NEL CASTELLO DI ACI
Il Castello di Aci appare come una monolitica difesa, conficcata sugli scogli davanti al blu del Mare Ionio.
Le Fanciulle che vi soggiornavano erano Vitree ecome Narcisoguardavano dentro i loro stessi occhi la propria bellezza. Non una che non fosse stata veramente bella poteva varcare la soglia del castello. Nessun guardiano sostava all’ingresso perchè solo lo splendore degli occhi delle Belle poteva aprirne gli spessi portoni. Era la sola luce dei loro occhi luminosi cheschiarendo la penombra indicava, lungo i corridoi di rosso mattone, il percorso da seguire.
Le Vitree Fanciulle sapevano di essere belle e desiderate. Erano particolarmente leggiadre e abituate, fin da piccole, a camminare su fragili tappeti di uova, badando che nessuno se ne rompesse. Con tali esercizi assumevano, col tempo, un’andatura libera e flessuosa che le faceva quasi volare, più che camminare. Non erano sciocche e vanitose ma bisognava che lo sembrassero perchè si concretizzasse l’antico e Sacro Anatema della bellezza fine a se stessa. Avevano guance simili alle rose i cui boccioli si trasformavano in labbra carnose; sembravano modellate dal vento e i loro fianchi scendevano a valle come i colli. Sotto le carezze erano simili al lucido scoglio lisciato da un mare continuo.
Alcune erano morbide e coi seni simili ai quelli delle madri che avevano allattato tanto coi larghi capezzoli. Possedevano cosce di schiuma; labbra come le vere labbra e avevano la tipica caratteristica del caldo afoso: quella sensazione di aver bevuto vino forte, sotto gli agrumeti, in un mezzogiorno d’agosto . Avevano il fuoco del Monte Gebel dentro di loro e non lo nascondevano.
AGRAMANTE
Nessuno tra i mortali che non sia forte coraggioso e sapiente può percorrere le lunghe vie percorse dall’Eroe.
E tra gli eroi non tutti pervengono a quel grado di conoscenza raggiunto da Agramante, Principe ereditario, Eroe purissimo degli Infedeli
Nato nella famiglia degli Aghlianì, formatasisecondo il racconto dei Padri, in una notte di luna piena, dal seme di un olivo venuto a contatto con la terra. Scuro nelle carni, aveva lampi dibianco sui denti e dentro gli occhi, zigomi sporgenti e ben modellati, pur non essendo angolosi.
Ancora giovane, abbandonò la casa paterna per cercare nel mondo le giuste vie del Sapere, del Coraggio e della Conoscenza. I ricordi, dentro di lui, erano simili a un’immagine riflessa e fu l’eterno desiderio a condurlo per mano.
Fu il racconto di lontane e antiche gestache lo sacrificò, portandolo a desiderare l’identica esperienza vissuta dagli Eroi. La sua vita divenne mezzo per raggiungere gli ideali e il suo corpo un trasparente involucro per i sentimenti, Nobili e puri i suoi pensieri e le gesta della sua vita furono sempre in sintonia con le leggi della Cavalleria. Infatti, dal nido dell’Eroe, devastato per la morte di Albina, non emerse nessun desiderio di rivalsa quando apprese che la bella Costanza, promessa sposa di Guiscardo, era stata uccisa dal Principe Zamir. Il Campione degli Infedeli indugiò anzi nel pianto, pensando simile al suo il dolore di Guiscardo.
I cuori dei nobili Cavalieri non conobbero mai quella triste rossastra virtù che talvolta è la vendetta! Tra i Cristiani solo il Conte Guiscardo D’Alamanno era suo pari.
Agramante non cercava la speranza, sorella della rassegnazione ma quella certezza dalla quale deriva la capacità di dare speranze agli uomini. Percorse la via del Sapere e conobbe parte del suo destino, consapevole che il volere degli Dei guidasse i suoi passi. Più avanti di lui, sul via della Conoscenza, erano gli Dei.
L’Eroe percorse pure la via del Coraggio e quella via gli dava la forza di non tacere la propria amarezza davanti alla parzialità e all’egoismo di certi Dei che spingevano gli uomini a combattere l’un contro l’altro, lasciando che la violenza scorresse fra loro, affinchè fosse la sconfitta del male a dimostrare il valore del bene.
Agramante percorse tutte le vie fino alla fonte dell’Acqua Chiara e bevendo da quella acquisì quel grado di conoscenza che tanti altri uomini non avevano raggiunto, e fra questi v’erano stati anche molti Eroi. La fresca acqua inondò la sua gola arsa e nell’attimo di maggior conoscenzail Monte Gebel esplose cupo e tenebroso vomitando la sua lava fino alle coste. Tutto sparì, perchè si fondasse un nuovo Potere; perchè altro terreno fertile fosse lasciato alla Fine Essenza di Purità, nuova meta di Agramante.
Se si fosse voltato indietro, avrebbe visto il mare azzurro e su di esso, una larga pianura che si inondava di una nuova alba. Pensò che, voltandosi indietro, avrebbe forse scelto il destino degli uomini e ricordò pure che su quelle pianure uomini della sua famiglia avevano seminato il grano. Alla sua mente venne anche l’immagine riflessa di Albina e, pensando che forse, l’avrebbe incontrata in avanti sul cammino, non si voltò indietro.
I contadini, durante la semina si difendono dal vento camminando all’ indietro.
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GLI INFEDELI
Vi sono uomini che leggono le stelle, altri che s’intendono di geometrie e altri ancora che pur avendo nel cuore la durezza conoscono i nomi dei fiori. I loro corpi vibrano a causa delle molteplici tensioni.
Posseggono il dono di Culture orientali, traggono conoscenza dall’osservazione delle stelle e pongono la loro vita al servizio di un ideale esclusivo. Conoscono i tempi dell’uomo e vivono in sintonia con la natura. Convinti che la pratica della trasgressione conduca all’esperienza, amano l’amore e pagano con la vita gli eventuali errori.
Quando il lungo cordone ombelicale viene loro reciso restano nudi di fronte alle vie del Perdersi e del Ritrovarsi. Hanno pelle scura di colore olivastro, saturo di caldo e deserto. Come sabbia, dentro il pugno chiuso, sfugge loro di mano la libertà. Nessun nemico tra i mortali riesce a imprigionare i loro sogni, animati come sono, da un unico, eterno, imprendibile desiderio.
Nel recondito del proprio nido il loro sentimento si trasforma in un gracile camaleonte, nascosto nell’immensa foresta emotiva di loro stessi.
Gli uomini che posseggono tali desideri si muovono come dune nel deserto: alcuni sono nomadi e la loro vita è l’immagine fedele del cuore e della mente.
Anche tra gli Infedeli vi sono uomini che hanno bui precipizi al posto del nido. Come il Tiranno Abdu e Magalibul. E Feraù di Magonza che fece sgozzare la madre perchè non partorisse altri figli. Simili uomini abbeverano nel sangue il loro egoismo e la loro malvagità.
Primo tra gli Infedeli, Agramante da Lentini, puro là dove pulsa il battito e nel pensiero.
Gli Infedeli discendono dai Nomadi e sono Saraceni. Alcuni sono nati nelle famiglie dei Muglabìti e dei Kalbìti; altri sono figli degli Aghlianì, di Ibn-Ummàbna.
LA FINE ESSENZA DI PURITA’
Oltre le rocce lisce di El Kantar, oltre le magie e gli incanti del bosco di Montalbano, fra le antiche rughe della Madre Terra, immerso in una nettarea sostanza gassosa il cui involucro è simile alla placenta, risiede stabilmente la Fine Essenza di Purità:
unico e essenziale Potere che sta sui Poteri della terra.
Al suo interno si forma e si sviluppa,autonomamente, quel Volere composto da ciò da cui proviene: Pietra, Ferro e Pensiero.
Ad ognuno di questi elementi si perviene percorrendo le vie del Sapere, del Coraggio e della Conoscenza.
Quanti, tra gli Eroi, riuscivano a sentire la carezza della luna piena di fineluglio; quanti tra i Campioni avvertivano in loro la pulsione emotiva del desiderio, uscire dal proprio nido; e solo a quelli come Agramante, cui la dolce Adalgisa concesse di vedere, ebbero la visione della Fine Essenza di Purità. La luce in quel momento appariva più chiara e splendente, senza essere accecante; tanto che gli occhi chiusifacevano vedere più nitido e più chiaro.
Per avere tale visione, le gambe degli Eroi avevano sopportato la fatica notturna di recarsi sulla cima del Gebel. Le loro guance avevano sentito, come un forte richiamo, la carezza della luna piena e i loro occhi avevano incontrato, in mezzo al cammino, l’antico e pregiato cirneco che li avrebbe accompagnati fino alla meta.
Dall’alto del monte, tra le pieghe della vecchia terra, potevano vedere rughe ancora più antiche e dentro queste, in uno spazio sconfinato, una montagna. Aveva la forma di un morbido corpo di donna, inserito sotto arcaici e monumentali sistemi architravati di marmo bianco.
Nell’apparente ventre, azzurro come il cielo, galleggiava un’enorme sfera: sembrava che il vento la spingesse e sembrava ferma; quasi volasse, sul mare, a pelo d’acqua. I seni, anch’essi di marmo, erano come quelli delle morbide Fanciulle del Castello di Aci e dalla testa, staccata dal tronco, cascava un’acqua del colore della purezza.
Cadendo, quell’acqua, lisciava le rocce, si trasformava in fiume e dava la vita agli uomini. Uno di questi fiumi, percorrendo da tempo la terra, aveva scavato una lunga ferita, segnando le rocce di El Kantar.
Sul fianco dell’apparente corpo di donna, sul confine simmetrico tra la notte e il giorno, da un trono di luce che appariva di vetro e sembrava di marmo, la Fine Essenza di Purità manifestava il suo Volere sotto forma di enormi sfere gialle che,simili a pianeti, si proiettavano su tutto: sulla vita degli uomini, delle piante, sugli animali, sull’aria che respiriamo.
Sulla terra, intorno al Monte Gebel, vi sono ulivi e fico dell’india, agavi,ginestre,salici e rovi.
LA MORTE
Il faro della luna, alto nel cielo, proiettava una lunga ombra scura che copriva i pascoli, coglieva rovi e mieteva sterpi. In riva al mare, dove si era portata una parte della battaglia, la Morte dispensava i suoi freddi e funesti abbracci. La sua ombra non metteva paura perché, sulle scarne ossa, lei che poteva, si era modellata la calda carne di un’amante.
Le sue braccia erano lunghe magre e la sua mano aveva dita sottili. Il colore gelido della sua carne inondava il corpo delle vittime e tutto ciò che prima era caldo di colpo diventava freddo. I tondi seni offriva ai cavalieri che d’improvviso sentivano un caldo desiderio indurirsi sotto la corazza. Coi neri occhi li attirava; tanto da non potevano legarei a nessun palo.
V’erano uomini che resistevano al canto delle sirene e ve n’erano altri che la morte in battaglia, come parte della vita, la cercavano.
Una tempesta dimare erano gli orgasmi viola della Morte; prolungati e contemporanei. Sottoposto al viola, il caldo desiderio dei cavalieri ingialliva e la loro mano, protesa alla vita, si raggelava al contatto di quella di lei, che in gelide ossa si trasformava lentamente, tanto che ambedue diventavano fredde come un marmo bianco.
Nelle calde alcove delle amanti in attesa, sferzate di quel freddo arrivavano, e in quei momenti il desiderio delle donne diventava enorme.
Simile era stato il desiderio di quegli uomini che, soggiogati dalla Morte,ne praticarono in profondità l’acerbo cespuglio. Tratti in inganno, gustarono con lei delizie mai provate prima. Grande, largo e profondo era, infatti, il cespuglio della Morte e di tutti quelli che vi finirono dentro mai più nessuno fece ritorno.
Dai paesi intorno al monte Gebel, alcuni uomini, gli emigranti, partivano attirati dalla fame; si infilavano nelle viscere della terra e il sole non lo vedevano mai. Nelle case di quei paesi, di sera, alitava l’assenza.
LA BATTAGLIA
Non v’era luogo intorno al Monte Gebel che non fosse macchiato di sangue e spighe da mietere sembravano gli uomini visti da lontano.
Non era temporale nel cielo, non era notte e non c’era il sole quando il Gebel, tuonando cupo, copri di tenebre la terra. Sui Suoi fianchi si aprirono larghe e profonde ferite.
Il respiro della terra che prima era affannato, ora saliva vigoroso e il vomito della sua inarrestabile sostanza ricopriva di rosso e di scuro i campi e le cose, gli uomini e gli animali.
Per molti giorni si sentirono i boati fino al mare e fino al mare arrivò la rossa lava che cancellava e seppelliva tutto.
Con la lava del Monte Gebel gli uomini scalpellini hanno costruito nuove case. Queste sono sparse un po’ ovunque ma non è possibile scavarle per vederne le radici.
EPILOGO
Alcuni uomini non credono che ciò possa essere accaduto e increduli non prestano orecchio alla voce di quelli che cantano:
Lu Cavaleri Guiscardo D’Alamanno,
Paladinu di lu Sacru puteri novu,
contracummatti cu Agramante da Lentini,
Principi Ereditariu e Campiuni di li Sarracini.
Ci sono altri uomini che quella voce conoscono e ne imitano il canto.
Sarebbe bene che in tutte le piazze si cantasse di guerre che non sono e che fosse il solo canto di uomini giusti a darci le immagini di nuovi Eroi.
…
Sarebbe altrettanto opportuno che le Arti Figurative riprendessero l’antico esercizio di parlare degli uomini riportando le immagini ai giusti significati e alle giuste forme:
Il Disegno fine ed elegante,
la Scultura vigorosa e immediata,
la Pittura morbida e onirica