Il Mercato Paolino, 2010- acrilico su tela cm. 120×60

Un divertimento che mette insieme pittura e parole.

Catania non è più quella di Martoglio, né quella di Brancati e neanche quella degli anni’60, ma il ricordo e la nostalgia possono ancora alleggerire il presente.

Dafni Michele Abruzzo, cui è dedicato questo scherzo letterario, era un caro amico, attore e drammaturgo di grande umanità e talento, mancato

troppo presto alle scene e all’affetto dei suoi tanti amici.

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Il mercato Paolino

I^ stesura 013-Bozza di stampa 01

Richiedere autorizzazione: mail@salvocansone.it

Dedicato a Dafni Michele Abruzzo

uomo di teatro e di grande generosità.

Scritto per mio figlio

Le scene

1 – Alfio, Amalia e il profumo del gelsomino

2 – La Signora Lauricella

3 – Compagnucci

4 – Melo il pisciaro, i suoi amici e il suo pesce

5 – Zio ‘ntonio, il ciarammelaro

6 – Il gioco delle tre carte

1 – Alfio, Amalia e il profumo del gelsomino

C’era un tempo a Catania come in altri luoghi della Sicilia, l’abitudine femminile di passeggiare per le vie del centro tenendo in mano un mazzetto di gelsomino. I mariti lo compravano alle mogli, i giovani alle fidanzate e gli uomini maturi alle loro amanti. Anche nei cinema all’aperto, le arene, che in città erano tante, si potevano comprare mazzetti di gelsomino. Nei piccoli bar, all’interno del cinema, si poteva anche comprare una fetta di limone da condire con sale o bicarbonato. C’erano le gazzose, ghiaccioli e l’immancabile simenza (semi di zucca salati), che nelle arene più popolari veniva gettata a terra dopo essere stata svuotata in bocca. Al cinema Carmine di piazza Carlo Alberto -due film, 25 lire- veniva direttamente sputata sul pavimento. In genere era gente molto raffinata la clientela del cinema Carmine!

Per questo motivo, ma non solo per la simenza, gli spettatori benestanti andavano in tribuna che stava appena sessanta centimetri più in alto della platea.

C’era e c’è gente che si eleva solo cambiando casa,salendo dal basso verso l’alto o meglio ancora abitando un attico.

    Alfio aveva comprato, con affetto per Amalia, un mazzetto di gelsomino e controllava, a destra e a manca, che nessuno taliasse (guardasse) la sua donna. Ma lei, mentre Alfio guardava a destra,

             s’ammuccava (s’imboccava-accettava) a manca ‘nbigliettinu         del Cavaliere Turi Lentini, noto fimminaro (sciupafemmine) di provincia e città.

“Mah sarà statala fraganza del gelsomino!”

…pensava Amalia fra se e se, sentendosi pizzicare il naso, mentre la mano del cavaliere pizzicava un po’ più sotto del naso…e dalla parte opposta!

E’ cosa risaputa anche alle basole (pietre laviche.usate per lastricare) che

“’A fimmina troppu taliata(guardata),prima o poi, veni arrubbata!” (rubata)

Certo che se Alfio si fosse minimamente accorto di quello che, alle sue spalle, e sotto ai propri occhi, stava accadendo, sarebbe successo un quarant’otto… e forse anche un 96!

     Alfio non era certo uomo che portava i pantaloni alla leggera, così, solo per coprire il pelo sulle gambe!

I pantaloni, -quando si dice portare i pantaloni-, nel paese di Alfio assumeva il valore del simbolo. Come un blasone che identificava l’esatta collocazione genetica con evidente riferimento al genere e al sesso.

Tutte le persone di sesso maschile infatti, indossano i pantaloni, ma c’è modo e modo di portali!

Anche i fimminielli napoletani portavano i pantaloni. Tenevano però la cintola un po’ più bassa e un portamento più ondulatorio di come li avrebbe portati un vero uomo. Inoltre, per i casi di più immediata necessità, alcuni di loro,come i puppazzi dei cimina (sic!) (cinema) catanesi Mirone, Caronda, Concordia o Eliseo,per citarne alcuni, liindossavano girati, con la cerniera sulla parte posteriore, con l’unico inconveniente di doverseli abbassare per fare la pipì. Ma era più comodo per altri usi.

A dire la verità, alla fine degli anni ’60, questo accadeva anche al cineteatro Fossati di Milano.

Come dire che tutto il mondo è paese!

Dicevamo che …se Alfio si fosse accorto di qualcosa, muto come un pesce e senza neanche chiedere spiegazioni, avrebbe tirato fuori un bell’alliccasapuni (tipo di coltello fuori misura) e l’avrebbe infilato dritto dritto nella pancia del cavaliere. Sulla lama non ci avrebbe stricato (strofinato) neanche lo spicchio d’aglio ma sarebbero bastati il veleno e la rabbia che teneva in corpo per avvelenare mortalmente l’insolente Dongiovanni. Ma la levatura sociale del Cavaliere non consentiva l’immediatezza del gesto perché la giustizia, in simili casi, avrebbe comunque trovato o inventato prove a discolpa di un suo compare o socio o affiliato che fosse, secondo l’antico detto:

Lu re, li corna li fa ma non li voli fatti!

Una diversa strategia avrebbe richiesto che il sanguecaldo di Alfio si potesse raffreddare per un istante, suggerendogli di denunciare lui stesso l’accaduto, gridandolo pubblicamente: 

Ohè, sintiti, sintiti tutti!

Che la gente sentisse, al fine di ottenere all’istante immediata soddisfazione, al cospetto di testimoni volenterosi. Chè sempre si trova qualcuno:

‘A malaerba non mori mai!

Sarebbero stati trovati subito i padrini, per entrambe le parti, che avrebbero fissato la data e il luogo di un duello riparatore. Così facendo tutto sarebbe rientrato nella norma e solo così, l’orgoglio del figlio del popolo e la levatura sociale del Cavaliere Lentini, avrebbero trovato pace morale e giustizia sociale. 

Pace morale e giustizia sociale!

“Chi è, si mangia?” – “No, e neanche si beve!”

     Meno male che Alfio non si sia accorto di niente.

Lui, pescivendolo alla pescheria di Catania, -vicino all’acqua a linzolo (fontana con cascata d’acqua piatta)-,non essendo stratega, non sarebbe stato in grado di attuare una diversa strategia da quella che il cuore e l’istinto gli avrebbero suggerito. Ascoltando il calore del sangue e il freddo della terra, avrebbe sventrato all’istante il Cavaliere, tirandogli via dalla pancia le nobili budella per attaccargliele al collo, lasciandolo poi in quella pozza di sangue che l’amaro destino di entrambi gli aveva commissionato.

Alcune storie obbediscono solo a se stesse e non alla ragione.

Piuttosto,… riflettendo su quanto accaduto, si sarebbe potuto pensare:

“Perché Amalia, che pure non aveva mai conosciuto il Cavalier Lentini, aveva sorriso e accettato una avance tanto ardita?”

Forse Amalia avrà lasciato intendere qualcosa…forse…forse, non volendo,…forse per caso,…forse ha inviato qualche segnale equivoco?

Uhm uhm uhm.. di sicuro c’è stata leggerezza o irresponsabilità!

Perché mai un uomo della buona borghesia locale avrebbe dovuto rischiare la vita per un capriccio… e nemmeno per una passione?

 Solo per una modesta fragranza di gelsomino?!

O per qualcosa che stava…appena sopra del gelsomino?

E noi sappiamo che la fragranza che stava al di sopra del gelsomino non era modesta! Anzi, era più che sontuosa, morbida, invitante, generosa e…ammaliante.

Ma com’era la fragranza ammaliante di Amalia?

     La risposta a questa insidiosa domanda non è semplice e potrebbe anche apparire irrispettosa nei confronti di Amalia e delle donne in generale.

Proverò a descriverla, sperando nel perdono femminile, nella complicità maschile, nella certezza della scienza ..…e nell’intelligenza delle persone.

     Cè qualcosa che pulsa nelle vene di tante donne, a prescindere dal luogo d’origine, appartenenza di razza e sviluppo sociale.

Qualcosa che a qualsiasi latitudine scorre sotto la pelle di tante donne e che prende nomi e forme diverse, secondo le rispettive longitudini di appartenenza.

Nella Catania di alcuni decenni fa questa tipologia esistenziale si materializzava in uno sguardo chiamato ladro, esaltato dal quel movimento che i fianchi sviluppavano durante la passeggiata, quando si teneva in mano un mazzetto di gelsomino.

L’assunto filosofico-concettuale che formava il pensiero di questo tipo di donne, poteva essere verbalizzato con la seguente frase:

“Mamma Ciccu mi tocca. Tocchimi Ciccu ca ‘a mamma non c’è!

Inoltre, a causa di un fattore di dinamismo psico-chimico che influenza l’apparato cerebrale e che si sviluppa fin dalla prima infanzia a livello embrionale e che coinvolge, per consueta familiarità, svariati filamenti del DNA, si creano particolari stati d’animo che intervengono sull’aspetto fisico, il quale assume forme piene e morbide con elevate capacità attrattive. 

Tale fattore fa sì che nelle vene di questo genere di persone, femmine per lo più, ma anche di sesso opposto, alcune volte, scorra una sostanza invasiva, che al di là di qualsiasi metafora, si potrebbe definire, senza arrecare offesa ad alcuno, buttanaggine.

Più comprensibile risulta il termine allorquando lo si pronuncia con più bal suo inizio.

Molto di questo sapeva il nostro amico Vitaliano.

Il termine non intende esprimere un giudizio morale poiché non si tratta della definizione tipica di chi lo fa per mestiere e nemmeno di quelle categorie di professionisti/e che quotidianamente ci propongono sulle copertine delle riviste e sugli schermi della TV. Tali ultime categorie, assieme a quella dei giornalisti di politica e costume, fanno invece derivare la loro bbbbuttanaggine dalla ferrea volontà di doverlo essere per indole, e volerlo essere per formazione, desiderio, versatilità e vocazione.

Come dire: “Lo fai perché ci sei, ci sei nato…è il tuo mestiere e non sai fare altro!”

Nel caso di Amalia e delle donne simili a lei, la buttanaggine era ed è un pregio; un modus vivendi, a volte invidiato da tante altre donne che, non riuscendo ad imitarle per carenza di fondi o fondamenta (v. Teoria della Gestalt), si rivolgono agli specialisti, sperperando il loro denaro o quello dei loro mariti, per cure, indumenti e prodotti inutili.

Come dire: “Sordi persi!”

Nel senso che “Cu nasci tunnu no’n po’ moriri quadratu!”

In altre parole: la bbbbuttanaggini est forma mentis che rinvigorisce gli uccelli perché portatrice di nuova vita. Una Bottas de vita che preannuncia la primavera. Un Dono del cielo, in linea con la natura.

La buttanaggine, in sostanza, è un piacevole gioco cui partecipa chi vuole. Una pratica utile a portare avanti la vita in tutti i sensi.

Perché senza musica non si canta missa; non si va a ligna senza corda e non si gratta formaggiu senza grattalora.

(non si va a far legna senza la corda, e non si gratta formaggio senza la grattugia)

    Il Cavalier Lentini e Alfio in realtà erano molto diversi per origini di rango e per costumanza quotidiana. Quasi coetanei d’età ma distanti anni luce per abitudini, formazione e maniere.

Il Cavaliere Lentini, come i nobili e i borghesi era stato educato a raspare (grattare, graffignare) impunemente dalla vita degli altri.

Alfio, catanese DOCG, era smargiasso, vanitoso, buttava di fuori la triaca e spacchieggiava a destra e a manca. (si dava delle arie)

I destini di simili uomini, per via del sangue e della terra, sono segnati, in genere fin dalla nascita. Da un punto di vista antropologico se ne potrebbero fare due liste ben distinte che salvo alcune eccezioni, possono ricondursi a tipiche tipologie caratteriali. Da queste poi, in base agli studi antropologici di Lévy-Strauss, Lombroso, Freud e altri studiosi, ne scaturiscono altre. A singole tipologie potrebbero anche corrispondere determinati mestieri, professioni o modi di essere. Come specificato nella tabella che segue.*

Tipologia LentiniAlfio tipology
Maccagnuni Sautanassi, fossi o bancu
Lima surda Giniusu – Ginirusu
Muzzicavisuli Sangusu
Mangia pani a tradimentuSmaniusu – Vucitaru
Vili – Superbu e PricchiuTriacusu
VagabunnuTravagghiaturi
Possibili tipologie caratteriali comuni a entrambi
Spacchi e pirita 
Uccalarga o Ucca di cantru 
Probabili professioni e mestieri esercitati
Ragiuneri o LatifondistaChiancheri o Pisciaru
Nutaru, Avvucatu, AssissuriFruttaiolu o Gilataru
ParrinuLuppinaru

*Per comprenderne a fondo il significato si rimanda alla consultazione di un dizionario dialettale.

e così, dicevamo che…  …mentri lu pasturi si cunta li pecuri davanti, lu lupu si mangia chiddi d’arreri.       (Il lupo mangia le pecore che stanno dietro, mentre il pastore controlla quelle davanti)

Il destino, quindi, volle che Alfio non si accorgesse di niente, né prima né dopo….“Dopo” significa che al primo bigliettino ne seguirono altri. Alfio andava a pesca e molte volte stava fuori anche di notte, specie quando c’era il passaggio dei masculini a trizza, (alici di Acitrezza) mentre Amalia si vedeva il passaggio dello stummu con un solo occhio! (metafora dello sgombro con un solo occhio centrale e che non è Polifemo)

E poiché“U pisci è pisci, ma ‘a carni è carni”

 Amalia rimase incinta!

… e di conseguenza:

Alfio, come già detto, non era uno stratega e non pensò a una strategia diversa dal sangue e dalla terra.

Fu così che il Cavaliere dovette mangiare in bianco per tutta la vita,

perché gli venne a mancare un pezzo d’intestino.

Nessuno seppe mai chi era stato

E la giustizia locale(!), fece il suo corso.

  Succede!

2 – La Signora Lauricella 

     La Signora Lauricella era sposata da circa trent’anni e non aveva mai avuto figli. Solo verso i quaranta rimase incinta e partorì una bella bambina. Le malelingue del paese misero in giro la voce che nove mesi, circa, prima del parto, suo marito era andato a Treviso per far visita alla sorella e che c’era rimasto per più di un mese.

“E’ mai possibile?”, si chiedeva la gente del quartiere, che uno spermatozoo potesse essere talmente lento da metterci più di un mese per attivarsi?!

Diciamo pure che si trattava di calunnie ma diciamo anche che non erano poi del tutto infondate. La gente del luogo non si poneva la domanda per morbosa curiosità ma principalmente perché ci teneva molto a farsi i cazzi degli altri.

Anche questo deriva dalla fecondità della terra.

Il papà della signora Lauricella si chiamava Sebastiano e lo stesso nome aveva il papà del sedicente neopapà. Così la bambina per tradizione -e non per disgraziata e grossolana usanza-, si dovette chiamare Sebastiana, diminuito in Ana, dialettizzato Jana.

     Jana a metà degli anni ’60 divenne un toppolo (il termine potrebbe essere tradotto ma risulterebbe sempre poco corrispondente al vero), ovvero… una bella ragazza. Tonda ma non grassa, formosa ma di giusto peso, fossette sulle guance rosate e mani rotonde. Intorno ai sedici anni, Jana fece la fujtina (fuga d’amore) con Melo, pescivendolo, come suo cugino Alfio.

Essere formose e piacevoli non significa necessariamente trasbordare ma avere giuste, sode e sane rotondità in alcuni punti del corpo. Possedere anche una personalità allegra, spontaneità di carattere e una risata accattivante e contagiosa.

 Tutte cose, queste, che fanno di colpo rizzare il pelo in testa.

   Jana era proprio una ragazza di questo tipo e Melo la vide per la prima volta, al battesimo di un suo nipote, figlio di una delle sue tre sorelle. Nonostante si trovasse in chiesa, nel momento in cui il prete versava l’acqua sulla testa del bambino e forse per colpa di quella santa acqua benedetta, sentì una sensazione di umido, scorrergli lungo la schiena, fino alle gambe.

Dovette uscire sulla piazzetta, antistante la chiesa, per evitare che l’occhio della gente si accorgesse della sua espressione trasognante e di quella macchia sui pantaloni.

Jana e Melo, dopo quella prima esperienza, si frequentarono con la complicità di Agatella – battezzata Agatina – sorella minore di Melo, che frequentava la mastra (scuola artigianale di cucito) per pantalonaia Anche Jana, frequentava la stessa sartoria della zia Tana a San Berillo Nuovo, così chiamato per distinguerlo da San Berillo Vecchio.

Meglio che il popolo sia creativo, piuttosto che costruttivo.

Il sentimento di Melo non era paziente fino al punto di saper aspettare, come di consueto, il tempo di un lungo fidanzamento. Il suo pensiero s’induriva sempre più, mentre quello di Jana prudeva. I genitori, come al solito, consigliavano di portare pazienza: soldi ce n’erano pochi e bisognava raccoglierli per poter fare un matrimonio onorevole.

…ché l’occhio della gente è occhio di Dio!

Il Vangelo non lo dice apertamente, ma è questa la regola di non farsi i cazzi propri!

Fu cosi che Melo e Jana pensarono insieme di risolvere il problema con la classicità della fujtina. Vero è che alcune volte la fuitina era anche un provvidenziale espediente, complice l’intera famiglia, per evitare le spese non previste di un matrimonio.

Un matrimonio affrettato, e per di più con il salvadanaio rotto, costava molto meno di un matrimonio organizzato per tempo e col salvadanaio ancora intatto:

Abitudini del luogo…e dell’economia!.

Nel caso di Melo e Jana il vero motivo non fu la mancanza di danaro, quanto l’impazienza del sentimento e del pensiero.

Il fastidio del prurito e dello sgocciolamento.

Non lo decise Melo da solo. Anche Jana fu dello stesso avviso. Infatti, dal momento in cui, quella volta in chiesa, durante quel battesimo di cui abbiamo detto, si era accorta, abbassando lo sguardo, del malessere sgocciolante di Melo, non era stata più capace di allontanare dalla propria mente quel che aveva visto e quel che aveva immaginato, al di là della sua stessa vista.

Ogni qualvolta che Melo passava sotto le sue finestre – e ciò accadeva tutti i giorni al mattino presto e verso l’ora del vespro, Jana lo guardava negli occhi e poi abbassava i suoi. Non li abbassava per senso di timidezza o prudenza ma in memoria di ciò che aveva visto quella volta in chiesa, con la speranza sopita di rivederlo ancora.

Non potendo andare avanti, da sera a mattina, in tale situazione, risolsero insieme per la fujtina.

     Melo e Jana facevano i mercati. Lui con il pesce e lei con le verdure e la frutta che il nonno materno Sebastiano, detto ‘zu Januzzu, coltivava e produceva nella sua piccola campagna.

La bancarella di Jana era sempre la più affollata, non solo per la bontà della merce che vi si vendeva ma principalmente per l’ avvenenza della fruttivendola. Almeno, in considerazione del fatto che intorno alla bancarella c’era sempre pieno di uomini di tutte le età.

I giovani per il presente,

i vecchi per ricordare il passato,

i pensionati per risparmiare.

Jana però, al contrario di Amalia, teneva, in tutte le circostanze, un comportamento riservato e più che irreprensibile.

    La bancarella di Melo stava sempre di fronte a quella di Jana. Lui, di nascosto, regalava sempre un po’ di pesce ai vigili urbani in servizio (all’epoca, integerrima categoria di funzionari), per avere sempre fisso il suo posto e per altri piccoli favori clientelari. Per via del suo lavoro Melo teneva sempre il pesce in mano, tanto che Jana non mancava mai di nulla. Tra un pesce e l’altro, una spigola, un merluzzo, un sarago e principalmente lo stummo – sempre quello con un solo occhio che non era Polifemo- aveva fatto sfornare alla moglie quattro bei maschietti, per la gioia della signora Lauricella.

Ah,…Dimenticavo di dire che quando il marito della signora Lauricella tornò da Treviso fece un paio di conti e nonostante il fatto che avesse frequentato solo le prime due classi della scuola elementare – bocciato due volte nella seconda classe per colpa delle tabelline – ne dedusse che la bambina non poteva essere sua. Non perché ne fosse fortemente convinto ma perché a lui l’attrezzo gli si rinvigoriva solo quando l’Atletico Catania vinceva. e quell’anno il Catania era retrocesso in serie C.

Comunque, per non fare bordello, a muta muta ,lasciò la moglie e si trasferì in Svizzera, in casa di un cugino che era espatriato dodici anni prima. Questo cugino se n’era andato dalla città per poter avere più largasia (libertà di movimento), in quanto, per lui, il Catania, era rimasto sempre in serie C, subendo, nel tempo, anche gravi retrocessioni.

     Jana amava tanto il proprio lavoro e la sua bancarella era la più ordinata e pulita di tutto il mercato. Ricca di ogni genere di merce, della quale conosceva l’origine, le caratteristiche e la maniera di cuocerla e servirla. I nonni contadini le avevano insegnato come scegliere gli alimenti della terra, cucinarli o conservarli dopo la cottura. Così si andava da Jana, anche e soprattutto, per trovare ortaggi freschi e chiedere quei consigli che lei elargiva ben volentieri.

Verdure e ortaggi di una volta…

…quando i finocchi erano veri finocchi e  non come quelli ‘da Villa

ma originali come quelli di Piazza Roma.

L’accia (sedano), piccante e verdissima. Nella caponatina una vera delizia.

La lattuga che andava bene di sera, accompagnata al formaggio, così come facevano i vecchi. Con il brodo di cottura ci si poteva sciaqquari la bocca contro il mal di denti, specie per lenire il dolore di un ascesso.

Le carote andavano bene per colorare le piume agli uccelli ma anche per i bambini rachitici.

L’uva proveniva da svariate famiglie: regina, Italia, fragolina, americana, zibibbo, moscato e moscatello, uva spina, lacrima di Cristo e così via.

Le albicocche tonde, vellutate e rossarancio con un lato puntinato di marrone.

I limoni gialli e succosi -quattro fioriture all’anno- i verdelli di Mascali, buoni per il pesce e per il rosolio.

I persica di la chiana(pesche della piana di Catania), quelli spicchialori che si staccavano magicamente dal guscio lasciandolo lindo e martellato, simile a un bugnato rinascimentale.

Eh, la signora Jana! 

Averne femmine come quella,… e non solo nel senso degli ortaggi.

Acqua e foco, dacci locu!  

3 – I compagnucci

     Anche due compagnucci andavano ogni settimana al mercato per fare le loro spese.

Pietro e Nello si erano conosciuti in campeggio durante una vacanza in Francia. Erano giovanetti e si erano subito piaciuti un sacco.

Pietro, di origini pugliesi, si era trasferito con la sua famiglia a Marsiglia e si faceva chiamare Yvonne.

Nello, diminuitivo di Giovannello, era di San Giovanni Li Cuti e tutti gli anni andava in Costa Azzurra per le vacanze estive.

Quasi tutti gli abitanti di San Giovanni Li Cuti, già dalla fine degli anni ’50, avevano preso la sana abitudine di recarsi in Costa Azzurra per le vacanze estive e frequentavano la vicina Cannes per via del Festival cinematografico. Stufi di mangiare cozze e cozzula, gustavano le ostriche, bevendoci sopra Champagne e Souternes, al posto dello Zibibbo.

Eh!Buone forchette quelli di San Giovanni Li Cuti!

Nell’intimità Nello si faceva chiamava Nellino e chiamava Von, Yvonne.

Quando i due ragazzini avevano circa dodici anni, si erano conosciuti al Camping   “Luna d’Agosto”,   sul mare di La Ciotat e una di quelle sera che il cielo ospitava una luna tonda e luminosissima, Yvonne, nella sua piccola tenda, vide il palo centrale indebolirsi col pericolo che tutta la tenda gli crollasse addosso.

Chiamò aiuto e arrivò Nello, appena giunto al campeggio, con lo zainetto ancora sulle spalle, che in quattro e quattr’otto gli sistemò per bene il palo che dal quel momento in avanti non si mosse più, restando dritto e teso a sostenere la tenda di Yvonne.

Dopo quell’ occasionale incontro i due non si lasciarono più e, finita la vacanza, si ripresentarono alle rispettive famiglie.

I genitori dapprima furono molto contenti di questa nuova amicizia che suggellava quasi una vicinanza culturale e geografica, in terra straniera, tra la Puglia la Sicilia – cosa mai vista nella Storia d’Italia, ma quando, poco a poco, cominciò a delinearsi la vera natura di quella amicizia, rimasero stupiti, un po’ imbarazzati, scossi e fortissimamente ‘ncazzati.

Successe una sera.

     Le due famiglie, considerata la buona amicizia tra i loro figli, avevano preso l’abitudine di frequentarsi almeno una volta ogni due mesi. Così, giusto per far frequentare fra loro i rispettivi figli, e si ritrovavano a turno nella casa dell’uno o dell’altro.

Una sera, nella casa pugliese di Yvonne, i due ragazzi, finito il pranzo, si alzarono da tavola, come facevano di solito, per andare in camera a giocare con le bamboline, all’insaputa dei genitori. Anzi, per evitare che i genitori scoprissero le loro abitudini e le vere intenzioni, avevano cosparso le pareti delle loro stanze di foto e gigantografie dei più noti campioni di wrestling, boxe e dei più svariati tipi di sport estremi. Disseminavano in giro, nelle rispettive camere delle rispettive città, guantoni da box, mazze ferrate, giornali e opuscoli di destra – i loro genitori si erano ritrovati insieme anche nel credo politico – e quando non erano nell’intimità camuffavano la loro voce, in genere sottile e acuta, con un tono cupo e roboante, artefatto e volutamente più virile.

Accadde quella sera che i due ragazzi andarono insieme in bagno, così come facevano di solito quando erano soli e che per malaugurata sorte dimenticarono di chiudere a chiave la porta.

Il papà di Yvonne, camionista di mestiere, si alzò da tavola per andare in bagno e aprendone la porta rimase esterrefatto nel vedere suo figlio che puliva il sedere a Nello, mentre quest’ultimo teneva il mano il pisello di Yvonne.

Non credette ai propri occhi. Li chiuse di colpo e quando li riaprì, con scatto fulmineo li posò sulla carta igienica ancora nella mano di suo figlio. Si accorse che era imbrattata di marrone e non servì neanche l’odore puzzolente di quella carta per convincerlo che i due non stavano tirando di boxe.

”Venite a vedere che bello spettacolo danno in bagno!”

Disse a gran voce dal corridoio.

La sonorità e la concitazione del richiamo fece scattare dalle sedie gli altri tre che si precipitarono di filato dentro il bagno che, pur piccolo e di una casa modesta, riuscì a contenerli tutti, compreso il padre di Nello, che era stato scavalcato e che adesso faceva capolino tra la testa di sua moglie e quella del papà di Yvonne.

I due ragazzi, scoperti e basiti, erano rimasti immobili per la paura. Uno con la carta e l’altro col coso nelle mani. L’unico che non si era scomposto, reagendo secondo natura, era l’uccello di Yvonne che, serrato fortemente dentro il pugno di Nello, si era fatto tanto piccolo, da scomparirci dentro.

Buttana ‘do cupirtuni ‘do mè camiun!”

Esclamò il papà di Yvonne, camionista.

“Quanto sono carini, sembrano due fratellini.”

Disse la mamma di Nello che sempre scema lo era stata.

“Domani dritti in chiesa a confessarsi.”

Sentenziò la madre di Yvonne facendosi il segno della croce. Da bambina era stata dalle suore ed era rimasta una cattolica bigotta.

“Un figlo frocio!”

Esclamò il papa’ di Nello, operaio metalmeccanico. “E se lo vengono a sapere i miei compagni alla catena!!??”

Le due famiglie non si rividero mai più ma i ragazzi, crescendo e dopo una pausa di assestamento, ritornarono a quel primo e lontano campeggio più uniti che mai.

   Al mercato Yvonne vestiva sempre con magliette attillate dai colori sgargianti, specie d’estate, e portava, anche d’inverno, una bandana, sulla testa quasi calva. Amava la natura e gli uccelli e di quest’ultimi ne aveva collezionato già parecchi durante i suoi lunghi viaggi.

Nellino aveva un neo sulla guancia sinistra, portava i capelli a spazzola. Tra i due appariva il più virile. Il loro sogno era quello di stare sempre insieme, comprare e curare una propria casa e partecipare al Gay Pride di New York,… almeno una volta nella vita.

La sera a letto, dormivano abbracciati l’uno all’altro, mano nella mano. La mano che non era nell’altra stava sul volatile.

‘Na manu lava l’autra e tutt’è dui lavunu ‘a facci.

4 – Melo il pisciaro, i suoi amici e il suo pesce

La bancarella di Melo ‘u pisciaru (il pescivendolo), l’abbiamo detto prima, stava di fronte a quella della moglie Jana. Quella posizione gli consentiva di avere sempre sotto controllo la moglie, durante l’intera giornata.

Il controllo era d’obbligo, non perché Jana avesse bisogno d’essere controllata ma perché, in base alla tradizione, era giusto che fosse così! Si sa mai che succedesse qualcosa di inusuale e che il marito potesse essere additato dalla gente come distratto per sua stessa inadempienza o superficialità.

Chi è causa dei propri mali pianga se stesso!

Ca ‘nta corda gruppa gruppa ci va ‘nto menzu cu’ non’ ci cuppa!

Melo, questo compito di controllore, lo svolgeva egregiamente con convinzione e capacità. A forza di svolgerlo era quasi diventato strabico, dovendo controllare la moglie con un occhio e con l’altro la bancarella e la bilancia.

Jana era fedele al marito La sua era (si fa per dire), una buttanaggine di casa (già dal 1960 si erano scoperte le differenti tipologie di buttanaggine. Quella cosiddetta di casa, si esercitava con il proprio marito all’interno della propria abitazione).

Le cose non potevano essere che due: o moglie o…Jana!

Anche Melo non aveva interessi extraconiugali, tranne una volta al mese quando usciva con Tano il chiancheri (macellaio) e Vito ‘u firraru (fabbro). Andavano a mangiare nella trattoria di Tanu ‘u porcu e di sua moglie ‘Nzina ‘a caiorda (lurida), a Picanello di Catania.

La trattoria-bettola di Tanu ‘u porcu non aveva nome ma tutti la sapevunu sentiri “’nta ‘za ‘nZina” (la chiamavano “Dalla zia ‘nzina-Vincenzina) e si mormorava in giro che, durante le cene, se uno c’era andato con un cane o con un gatto, quel cane o quel gatto scomparivano e non si ritrovavano più. Il sapore della carne in effetti, era un po’ strano dalla ‘za ‘Nzina, però la triaca (i fagioli), come la cucinava lei, non la cucinava nessuno in tutta la città.

Si racconta anche che una volta, alcuni forestieri, in quella trattoria, v’erano andati a mangiare, e che alla fine del pasto, avevano chiesto una ricevuta da esibire poi a chi non so, e che Tano ‘u porcu aveva risposto:

“’Na ricivuta?! E chi è cosa da mangiare è?”

 “No” -disse uno dei forestieri sfottendo – “Cosa da scrivere è; da scrivere su una carta intestata!”

E Tano: “Ma ccà nuatri, figghiuzzu miu, sulu a carta uliata avemu e ‘nta carta uliata ‘no’n si po’ scriviri c’ò labisi.”

Quelli fecero a meno della ricevuta, ma un vicino di tavolo, originario dell’Ognina, gridò a Tano:

“Scrivicillu ‘nta seggia ca poi ‘u scancellunu c’ò’ culu!”

(scriviglielo sulla sedia che dopo lo cancella col sedere)

Tutti i commensali si misero a ridere: gran risate e ammiccamenti. Anche i forestieri ridevano, ma un po’ meno allegramente, perché non capirono per intero la battuta.

Dopo la cena, come d’abitudine, Melo, Tano e Vito andavano a fimmini (donne)

Salivano sulla 600 verdolina, guidata a zig zagda Vito per via del litro e mezzo di vino che si era bevuto a tavola. Diciassette gradi, zona Solicchiata, Comune di Linguaglossa.

     Andare a fimmini, in quegli anni, significava scendere da Picanello, percorrere il Corso delle Provincie, poi arrivare in Viale Libertà, girare a destra in Piazza Jolanda. Percorrere la via Ventimiglia, superare la via tipografo e mangiare, a destra, due crispeddi della rosticceria Stella. In direzione del carcere vecchio di Piazza Lupo, svoltare a destra in di via Antonino di Sangiuliano, posteggiare l’auto e percorrere a piedi l’ultimo tratto del viaggio.

Si arrivava in Via delle Finanze.

Così chiamata perché alla fine della via, che sbucava in Piazza Teatro Massimo, c’era l’edificio del Ministero delle Finanze.

E che finanze di tette al sole, culi larghi e bocche rosse!

Anche la via Di Prima e via Pastore si trovavano nel quartiere di San Berillo vecchio ed erano, in parte anch’esse, vie del piacere.

In termini di buttani, negli anni ’60, in via Pastore esercitava per poche lire al colpo, la mitica Maria coscilordi (cosce sporche). No! La poverina sicuramente si lavava, ma forse la chiamavano così per via …degli odori.

C’era poi la bolognese che non veniva da Bologna ma che dell’Emilia Romagna ne conosceva la lingua.

Bisognava stare attenti con Pinuzza ntrallazzu (imbroglio), per la sua specialità. Quella di allungare le mani, durante la prestazione, per alleggerire una parte del portafoglio del cliente.

Cetty roccherollo.(rock and roll)doveva il proprio soprannome al fatto di essere stata da ragazza negli Stati Uniti e anche per l’abitudine di metteresul giradischi, durante il servizio, quel tipo di musica. Cetty si muoveva a tempo e completava la propria perfomance a tempo di musica, nello spazio del brano musicale. Veloce e unica nel movimento…almeno così si diceva. 

Abballati, abballati, fimmini schetti e maritati.

Senza dimenticare che Il tempo è denaro!

Melo, Tano e Vito andavano là perché era quello il luogo maschile per eccellenza. Le moglie, quasi certamente sapevano, ma stavano zitte. Qualcuno avrebbe solamente detto che stavano al loro posto, perché capivano l’esigenza e l’origine araba dei loro uomini. D’altra parte la morale a cui erano state educate, o meglio diseducate, non consentiva loro di mostrarsi generose in prestazioni supplementari a quelle di rito che la pudicizia imponeva. Non si giravano, non si abbassavano, si piegavano poco e non erano brave a fingere.

Il problema era anche quello che a quel tempo bisognava

Attaccari ‘u sceccu unni voli ‘u patruni!

Jana, pur sapendolo, o solo immaginandolo non si lamentava di niente perché suo marito, da un certo punto di vista, non le faceva mancare nulla.

A causa della propria indole e maggiormente per via del suo mestiere, Melo  teneva sempre il pesce in mano e Jana lo assecondava preparandoglielo in maniera diversa tutte le sere: fritto, arrosto, in salamoia, all’acqua di mare, impanato, freddo d’estate e caldo d’inverno, servito a tavola o sul terrazzo.

Anche a voler pensare, come s’è detto, che Jana, in fatto di uomini, potesse avere interessi esterni al proprio domicilio, si sarebbe fatto uno sbaglio perché, anche volendolo, non avrebbe tempo, impegnata com’era al mercato e in casa.

Infatti, Melo il pisciaro, conoscendo bene l’indole calorica della moglie, non perdeva mai tempo in chiacchere e tutte le occasioni erano buone per squamare il pesce che Jana sapeva bene come cucinare.

Altra cosa importante era che Jana, pur sapendo delle serate di Melo e dei suoi amici non voleva creare problemi con scenate di gelosia e quant’altro. All’epoca tale atteggiamento si chiamava Prudenza.

Raccomandato anche dai preti e dalle madri.

Melo non perse mai gli amici perché non c’erano fra loro problemi di denaro o di donne a legittimare il proverbio:

P’è fimmini e p’è sordi si perdunu l’amici

Dividevano, alla romana, la spesa della rituale cena mensile; ognuno aveva la sua donna e nessuno di loro guardava mai quella degli altri…se non con gli occhi della mente.

Da ciò si intuisce che il comandamento “Non desiderare la donna d’altri”, serve unicamente a mantenere salda l’amicizia!

5 – Zio ‘ntonio il ciarammelaro

     Accanto alla bancarella di Melo c’era quella di zio ‘ntonio ‘u ciaramiddaru (suonatore di cornamusa),al secoloAntonio Scarfellotto da Maletto, paese di montagna, di pecore e pecorai. La sua specialità che diventava mestiere durante il periodo natalizio era quella di suonare la ciaramedda; uno strumento a fiato, ricavato dalla pelle di una parte della pecora, anzi di quasi tutta la pecora.

I ciaramiddari, scendevano in città e suonavano la novena di Natale davanti ai presepi di chi li chiamava. Suonavano tutti i giorni con orari prestabiliti per circa quindici giorni, poi quando avevano finito ricevevano la paga concordata in precedenza per il servizio reso. Far suonare la novena di Natale davanti al proprio presepe era la maniera di fare musica natalizia.

Non si sapeva ancora bene cosa fosse il panettone, l’albero natalizio o Babbo Natale.

I regali? “Pp’è morti!A novembre!. (Per la ricorrenza dei defunti i morti portavano i regali ai bambini.)

A casa mia ‘zi ‘nToni veniva di sera, intorno all’ora di cena e per lui era riservata una mafalda (tipica forma di pane) imbottita con peperoni arrostiti e cotoletta, accompagnata da un bicchiere di vino. Anche da altre famiglie, già dal primo pomeriggio, per via del freddo gli veniva offerto un bicchiere di vino. Di conseguenza, quando arrivava a casa nostra, il movimento della novena, che di solito era un larghetto lento e moderato, diventava un andante ritmato altalenante per via dei troppi bicchieri tracannati in precedenza.

Scoprii più tardi la musica rock e mi convinsi che ‘nTonio il ciaramellaro sarebbe stato un ottimo musicista rock se fosse andato a suonare la ciaramella a Nashville. Del resto, alcoolizzati e drogati hanno sempre suonato magnificamente! Forse in quegli anni, al posto del vino, gli avrebbero offerto un po’ di LSD e il risultato sarebbe stato lo stesso.

Da ciò si intuisce che il vino, rispetto ad altre droghe, costa meno e sicuramente fa meno danni.

Quando le ciaramelle non si suonarono più, Antonio venne assunto da un commerciante di giocattoli che girava per i mercati nelle fiere paesane. Quando il suo principale smise di lavorare, suo malgrado, calando nella tomba, Antonio rilevò dalla moglie la licenza di vendita, il magazzino con la merce e continuò a fare i mercati durante tutti i giorni della settimana.

Andava a Lentini per la fera ‘o luni (la fiera del lunedì), che si teneva di giovedì (sic!). A Piazza Armerina andava il marte; il mercole a Vizzini. Di giove a Belpasso chiamata Malpasso quando c’erano ancora i briganti, mentre adesso, al loro posto, ci sono solo comuni delinquenti. Di venere andava a Giarre e al sabaturia alla fiera di Catania La minica matina in qualche festa paesana. Il lune di riposo e per organizzare la settimana a venire.

I vecchi ricordi fanno fatica a morire e così la ciaramella di Antonio restava sempre bene in vista, troneggiando da sola sulla parete più grande della sala da pranzo. Alcune volte, per accontentare i suoi figli, Antonio la suonava, con la segreta speranza che almeno uno di loro, non dico suonarla, ma almeno prenderla in mano, anche solo per ricordare il tempo e il padre. Chi sicuramente si era scordato di quello strumento e che non avrebbe potuto neanche ricordarlo era la povera pecora usata per costruirlo!

Davanti alla bancarella dello ‘zi ‘ntonio i bambini restavano abbabanuti (basiti).

Su quella bancarella, alla vista dei suoi tanti giocattoli esplodeva la vera sostanza della vita: l’impossibilità di ottenere tutto quello che dalla vita si potesse desiderare.

I giocattoli invenduti e anche quelli non più di moda stavano sempre in bella mostra sulla bancarella. Antonio non si sarebbe mai sognato di buttarli via. Ne aveva avuti talmente pochi da bambino che disfarsene gli sembrava un sacrilegio. Di conseguenza, anno dopo anno, la sua bancarella diventava il museo delle diverse generazioni. I giocattoli più antichi accanto a quelli più nuovi; una bambola di pezza con un gormita fluorescente; il trenino di latta vicino al cubo magico; l’automobile di Batman di fronte alla pistola di Pecos Bill.

Da grandi si diventa collezionisti; da giovani si è consumatori.

Sarebbe lunghissimo l’elenco, non solo dei singoli giocattoli ma anche delle connotazioni emotive. Un museo delle tre età. Un album di ricordi.

Se così non fosse cos’altro potrebbe essere un giocattolo?

Peccato che ‘U spassu non dura tuttu ‘u tempu.

6 – Il giuoco delle tre carte 

     Ciccino, detto il manolesta, aveva due amici fidati, conosciuti nel collegio di piazza Alberto Lupo, a Catania. In quella piazza c’era il vecchio carcere della città. Vecchio lo si disse dopo che venne costruito quello nuovo di via Ipogeo.

C’era veramente bisogno di un carcere nuovo a Catania perché col crescere della popolazione a causa dell’immigrazione dai paesi della Provincia, cresceva proporzionalmente anche la quota delinquenziale, che in Sicilia non ha mai difettato. Non solo di quella affiliata alle organizzazioni che ben conosciamo ma anche di quell’altra, più vasta e pericolosa, composta da individui spocchiosi che impostavano la propria vita in base al criterio della lunghezza e della capacità di infinocchiare il prossimo.

E Purtroppo quest’ultimi ci riuscivano –e ci riescono spesso- perché, anche in terra di spocchia, di pacchiotti (fessacchiotti) ce ne sono tanti!

Ciccino era di quelli che buttavano la triaca di fuori (detto di personaggi spavaldi) e i suoi due amici, Pippu ‘u tignusu (da tigna = calvo) e Cola da’ Barrera (Barriera, quartiere di Catania) si sentivano anche loro triacosi.

Questa Triade insulare -per distinguerla da quella solare-,non sapendo come sbarcare il lunario quando si stava col sedere per terra (privi di mezzi economici), per la speranza di mettere insieme pranzo e cena si armava di una artigianale banchitta (banchetto richiudibile ante-Ikea), di tre carte napoletane con simboli diversi: re, cavallo e fimmina e si appostava alla fera (mercato) di piazza del Carmine, all’angolo con la via Grotte bianche.

Ciccino manolesta, muoveva le sue tre carte con abile maestria. In questo stava l’origine del suo soprannome. Le muoveva con tale celerità che diventava veramente difficile seguirlo nei suoi rapidi movimenti che finivano sempre col lasciare sul piano della banchitta le tre carte capovolte, tanto da non poterne vedere le figure.

Intorno alla banchitta si radunava gente; passanti sprovveduti in genere, che scommettevano soldi nella speranza di individuare la carta con la donna. Intorno alla banchitta il gruppo di curiosi venivano attirati al gioco dai compari di Ciccino, Pippo e Cola, che scommettevano, sulla parola, biglietti di grosso taglio. Poi, mentre si mostravano impegnati a cercare i soldi nelle tasche, facevano finta di distrarsi, mentre Ciccino spostava la carta a loro insaputa. Quando questi posavano i soldi sulla carta, per convalidare la scommessa, Ciccino la girava per farla vedere ma la carta non era più quella scelta. Qualcuno dei presenti, pacchiotti nati e pasciuti, pensando di essere più furbi, dal momento che avevano visto il cambio della carta, si facevano irretire nel gioco, perdendo ingenti somme.

Un altro trucco consisteva nel far vedere com’era facile vincere grosse somme di danaro per poi incastrare il malcapitato pacchiotto, invitandolo a bloccare la carta con una mano:

“Ci mittissi ‘n’à manu, ‘n’minutu, mentri pigghiu‘i sordi ‘nta sacchetta!”

Quelli che erano meno pacchiotti e altri che stavano solo a guardare senza partecipare al gioco, compresi i ragazzini, venivano allontanati dai compari con piccole spinte o mettendoglisi davanti per ostruirne la vista.

In realtà i compari erano affiancati da altri tre o quattro personaggi. Uno faceva da palo all’angolo della via opposta, in caso giungessero gli sbirri, mentre altri si alternavano fra loro per non dare a vedere che erano sempre gli stessi a puntare sulla carta vincente.

Una buona percentuale di pacchiotti che ci cascavano non erano di Catania ma venivano in città dai paesi vicini per fare acquisti – magari in vista di una festività o un matrimonio- o per frequentare Via delle Finanze. Magari erano contadini da’ Mascalucia, Viddani ‘da chiana (contadini della piana), Nicolosoti, Bruntisi, Malpassoti e simili.

I catanesi nati a Catania, amano pensare che i pacchiotti vengano solitamente da altri paesi e che nessuno di loro lo sia. La storia invece ci insegna che ce ne sono stati tanti e che ancora continuano ad esserci.

Chissà perché l’intelligenza debba essere considerata meno forte della furbizia? Perché chi nasceva a Catania era furbo, furbo ma tanto furbo che si sentiva il più furbo dei furbi? Era Spertu, anzi spirtuni!

Ma tutti gli altri, che Catanesi non erano, cantavano in coro:

Ucca ca s’avanta, cachici !

E in realtà, ancora oggi, molti Catanesi soffrono di gengivite e forti dolori di stomaco. Ma si tratta del loro destino.

   Arraffuni!

E’ stato un gran piacere!

Salvo Cansone per gli amici di origine siciliana, valdostana e della Valle Brembana!

Milano 2013